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dimanche, 27 février 2011

Egitto: i movimenti sociali, la CIA e il Mossad

Egitto: i movimenti sociali, la CIA e il Mossad

di James Petras

Fonte: campoantimperialista

 

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I limiti dei movimenti sociali

I movimenti sociali di massa che hanno obbligato Mubarak a ritirarsi rivelano nello stesso tempo la forza e la debolezza dei sollevamenti spontanei.
Da una parte, i movimenti sociali hanno dimostrato la propria capacità di mobilitare centinaia di migliaia di persone, forse milioni, per una lotta vincente che è culminata con la caduta del dittatore che i partiti di opposizione e le personalità preesistenti non hanno voluto o potuto far cadere.
D'altra parte, a causa della leadership politica nazionale, i movimenti non sono stati capaci di prendere il potere politico e trasformare in realtà le loro richieste. Ciò ha permesso alle alte cariche militari di Mubarak di prendere il potere e definire il post mubarakismo, garantendo la continuità e la subordinazione dell'Egitto agli Stati Uniti, la protezione della ricchezza illecita del clan Mubarak (70 miliardi di dollari), il mantenimento delle numerose imprese di propretà dell'élite militare e la protezione dei ceti alti.

I milioni di persone mobilitate dai movimenti sociali per far cadere la dittatura sono state praticamente escluse dalla giunta militare, autoproclamatasi “rivoluzionaria”, al momento di definire le istituzioni e la politica, per non parlare delle riforme socioeconomiche necessarie ai bisogni basilari della popolazione (il 40% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e la disoccupazione giovanile supera il 30%). L'Egitto, come nel caso dei movimenti sociali e studenteschi popolari contro le dittature di Corea del Sud, Taiwan, Filippine e Indonesia, dimostra che la mancanza di un'organizzazione politica in ambito statale permette a personaggi neoliberali e conservatori “d'opposizione” di rimpiazzare il regime. Tali personaggi, stabiliscono un regime elettorale che continua a servire gli interessi imperialisti e difende l'apparato statale esistente. In alcuni casi, vengono sostituiti i vecchi complici capitalisti per altri di nuovo conio. Non è casuale che i media lodino la natura “spontanea” della lotta (e non la domanda socioeconomica) e presentino sotto una luce favorevole il ruolo dei militari (senza tenere conto dei 30 anni nei quali sono stati il baluardo della dittatura). La massa è lodata per il suo “eroismo” e i giovani per il loro “idealismo”, ma in nessun caso li si riconosce come attori politici centrali nel nuovo regime. Una volta caduta la dittatura, i militari e l'opposizione elettorale “hanno celebrato” il successo della rivoluzione e si sono mossi rapidamente per smobilitare e smantellare il movimento spontaneo, al fine di dare spazio alle negoziazioni fra politici liberali, Washington e l'élite militare al potere.

Mentre la Casa Bianca può tollerare o persino fomentare movimenti sociali che conducano alla caduta (“sacrificio”) delle dittature, essa ha tutto l'interesse a preservare lo Stato. Nel caso dell'Egitto, il principale alleato strategico dell'imperialismo degli Stati Uniti non è Mubarak, è l'esercito, con il quale Washington è stata in costante collaborazione prima, durante e dopo la caduta di Mubarak, assicurandosi che la “transizione” alla democrazia (sic) garantisca la permanente subordinazione dell'Egitto agli interessi e alla politica per il Medio Oriente degli Stati Uniti e di Israele.


La ribellione del popolo; le sconfitte della CIA e del Mossad

La rivolta araba dimostra, ancora una volta, le varie falle strategiche in istituzioni come i servizi segreti, le forze speciali e le intelligence degli Stati Uniti, così come nell'apparato israeliano, nessuno dei quali è stato capace di prevedere, non diciamo di intervenire, per evitare la vincente mobilitazione e influire nella politica dei governi e governanti che erano in pericolo.
L'immagine che proiettavano la maggior parte di scrittori, accademici e giornalisti dell'imbattibilità del Mossad israeliano e dell'onnipotente CIA è stata sottoposta a dura prova, con il suo fallimento nel riconoscere la portata, la profondità e l'intensità del movimento di milioni di persone che ha sconfitto la dittatura di Mubarak. Il Mossad, orgoglio e allegria dei produttori di Hollywood, presentato come un “modello di efficienza” dai suoi ben organizzati compagni sionisti, non è stato capace di intercettare il crescere di un movimento di massa in un paese vicino. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, si è mostrato sorpreso (e costernato) per la precaria situazione di Mubarak e il collasso dei suoi clienti arabi più vicini, proprio a causa di errori dell'intelligence del Mossad. Ugualmente, Washington, con i suoi 27 organismi di intelligence oltre al Pentagono, è stata colta di sopresa dalle massicce rivolte popolari e dai movimenti emergenti, malgrado le sue centinaia di migliaia di agenti pagati migliaia di milioni di dollari.

Varie osservazioni teoriche si impongono. S'è dimostrato che l'idea di alcuni governanti forzatamente repressivi, che ricevono migliaia di milioni di dollari di aiuti militari dagli Stati Uniti e possono contare con all'incirca un milione di poliziotti, militari e paramilitari per garantire l'egemonia imperiale, non è infallibile. La supposizione che mantenere vincoli a larga scala e per lungo tempo con tali governanti dittatoriali salvaguardi gli interessi USA è stata smentita.
L'arroganza di Israele e la sua presunzione di superiorità in materia di organizzazione strategia e politica rispetto agli “arabi”, è stata seriamente danneggiata. Lo Stato d'Israele, i suoi esperti, gli agenti segreti e gli accademici delle migliori università statunitensi, rimangono ciechi di fronte alle realtà emergenti, ignoranti circa la profondità dello scontento e impotenti ad evitare l'opposizione di massa ai propri clienti più importanti. I propagandisti di Israele negli Stati Uniti, che non resistono a qualsivoglia opportunità per mettere in luce la “brillantezza” delle forze di sicurezza d'Israele, sia che si tratti di assassinare un leader arabo in Libano o a Dubai o che si tratti di bombardare un'istallazione militare in Siria, sono rimasti temporaneamente senza parole.

La caduta di Mubarak e il possibile insediamento di un governo indipendente e democratico significherebbe che Israele potrebbe perdere il suo principale alleato poliziesco. Un'opinione pubblica democratica non coopererebbe con Israele per il mantenimento dell'embargo a Gaza, né condannerebbe i palestinesi a morire di fame per piegare la loro volontà di resistere. Israele non potrà contare su un governo democratico per spalleggiare le violente occupazioni di terre in Cisgiordania e il suo regime fantoccio palestinese. Se ci sarà un'Egitto democratico, gli Stati Uniti non potranno più contarci per spalleggiare i loro intrighi in Libano, le loro guerre in Irak e Afganistan o le sanzioni contro l'Iran. D'altra parte, il sollevamento dell'Egitto è servito d'esempio ad altri movimenti popolari contrari ad altre dittature clienti degli Usa. In Giordania, Yemen e Arabia Saudita. Per tutte queste ragioni, Washington ha appoggiato il golpe militare con il fine di dare forma ad una transizione politica in accordo con i propri gusti e interessi imperiali.

L'indebolimento del principale pilastro del potere imperiale degli USA e del potere coloniale di Israele in Nord Africa e in Medio Oriente pongono in evidenza il ruolo essenziale dei regimi collaboratori dell'Impero. Il carattere dittatoriale di questi regimi è il risultato diretto del ruolo che svolgono in difesa degli interessi imperiali. E i grandi pacchetti di aiuti militari che corrompono e arricchiscono le élite dominanti sono la ricompensa per la sua buona disposizione a collaborare con gli Stati imperialisti e coloniali. Data l'importanza strategica della dittatura egiziana, come spiegare il fallimento delle agenzie di intelligence degli USA e Israele nell'anticipare le rivolte?

Tanto la CIA quanto il Mossad, hanno collaborato strettamente con i servizi segreti dell'Egitto e da essi hanno tratto le loro informazioni, secondo le quali tutto sembrava sotto controllo. I partiti dell'opposizione sono deboli, decimati dalle infiltrazioni e dalla repressione, i suoi militanti languiscono nelle prigioni e soffrono di fatali “attacchi al cuore” a causa di severe “tecniche di interrogatorio”, affermavano. Le elezioni sono state manipolate per eleggere i clienti degli USA e Israele, in modo che non ci fossero sorprese democratiche nell'orizzonte immediato o a medio termine.
I servizi segreti egiziani sono istruiti e finanziati da agenti israeliani e statunitensi, ed hanno una naturale tendenza a compiacere la volontà dei loro padroni. Erano tanto obbedienti a produrre informazioni che compiacessero i loro mentori, che ignoravano qualsivoglia informazione di un crescente malessere popolare o la agitazione in Internet. La CIA e il Mossad erano tanto incrostati nel vasto apparato di sicurezza di Mubarak che sono stati incapaci di ottenere qualsiasi informazione sui movimenti indipendenti dell'opposizione elettorale tradizionale che controllavano.

Quando i movimenti di massa extraparlamentari sono scoppiati, il Mossad e la CIA hanno continuato a confidare nell'apparato statale di Mubarak per mantenere il controllo attraverso la tipica operazione della carota e il bastone: fare concessioni simboliche transitorie e riversare nelle strade l'esercito, la polizia e gli squadroni della morte. Mano a mano che il movimento cresceva da dozzine di migliaia a centinaia di migliaia a milioni di persone, il Mossad e i principali congressisti statunitensi sostenitori di Israele chiedevano a Mubarak di “sopportare”. La CIA si è limitata a presentare alla Casa Bianca il profilo politico di funzionari militari affidabili e di personaggi politici flessibili, “di transizione”, disposti a seguire i passi di Mubarak. Una volta ancora, la CIA e il Mossad hanno dimostrato la loro dipendenza dall'apparato statale egiziano per ottenere informazioni su ciò che poteva rappresentare un'alternativa possibile pro statunitense e israeliana, omettendo le più elementari esigenze del popolo. Il tentativo di cooptare la vecchia guardia elettoralista dei Fratelli Musulmani attraverso negoziazioni con il vicepresidente generale Omar Suleiman è fallita, in parte perché i Fratelli Musulmani non avevano il controllo del movimento e in parte perché Israele e i loro seguitori statunitensi si sono opposti. D'altra parte, l'ala giovanile dei Fratelli ha fatto pressioni affinché l'organizzazione si ritirasse dalle trattative.

Le lacune in materia di intelligence hanno complicato gli sforzi di Washington e Tel Aviv per sacrificare il regime dittatoriale e salvare lo Stato: né la CIA né il Mossad avevano vincoli con nessuno dei leader emergenti. Gli israeliani non sono riusciti a trovare nessun “volto nuovo” che avesse consenso popolare e fosse disposto a svolgere il poco decoroso ruolo di collaboratore dell'oppressione coloniale. La CIA era totalmente coinvolta nell'uso dei servizi segreti egiziani per torturare sospettati di terrorismo (…) e nella vigilanza dei paesi arabi vicini. Come risultato, sia Washington che Israele hanno cercato e promosso il golpe militare al fine di anticipare una maggiore radicalizzazione della situazione.

In ultima analisi, l'insuccesso della CIA e del Mossad di prevedere e prevenire il sorgere del movimento democratico popolare, mette in rilievo la precarietà della base del potere imperiale e coloniale. Alla lunga, non sono le armi, le migliaia di milioni di dollari, i servizi segreti, né le camere della tortura ciò che decide la storia. Le rivoluzioni democratiche avvengono quando la maggior parte di un popolo si solleva e dice “basta”, occupa le strade, paralizza l'economia, smantella lo Stato autoritario ed esige libertà e istituzioni democratiche senza tutela imperiale o sottomissione coloniale.


Traduzione di Marina Minicuci


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samedi, 26 février 2011

Sull'Egitto l'onda lunga di Otpor

Sull'Egitto l'onda lunga di Otpor

di Miriam Pace

Ex: http://www.clarissa.it/

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Ahmed Maher è il fondatore e attivista dell'organizzazione "6 aprile", il network che ha dato vita al movimento di protesta che ha cacciato Hosni Mubarak dal potere in Egitto dopo trenta anni. In una intervista al quotidiano Il Riformista, Maher svela alcuni retroscena dell'attività segreta per preparare le proteste di gennaio/febbraio. Ecco alcuni brani del suo racconto:

"La mia avventura di attivista non è stata improvvisata, erano anni che mi muovevo nei sotterranei egiziani per minare le fondamenta del regime. Tutto è iniziato con Kifaya - il movimento che già dal 2003 aveva provato a spodestare Mubarak. Kifaya non centrò il suo obiettivo e molti di noi iniziarono a muoversi nella sfera virtuale.
[...] Abbiamo studiato i movimenti non violenti che si erano mobilitati in tutto il mondo, volevamo cercare degli esempi soprattutto in Europa. Abbiamo incontrato gli attivisti serbi di Otpor che avevano aiutato a rovesciare la dittatura di Slobodan Milosevic e, consultandoci con loro, abbiamo iniziato a studiare il pensiero dell'accademico americano Gene Sharp, perché ci sembrava che la sua teoria di rovesciare non violentemente i regimi militari facesse al caso nostro. Studiavamo la teoria sui libri, guardavamo video di mobilitazioni precedenti in televisione e cercavamo di coinvolgere e preparare sempre più persone utilizzando internet. Volevamo creare una massa di persone che potesse fare pressione sul regime e spingerlo verso la capitolazione finale. Volevamo che diversi settori della società iniziassero a spingere il regime fino a farlo crollare.
[...] I diversi movimenti di giovani attivisti hanno cominciato a coordinarsi la scorsa estate. Alcuni erano attivi solo nella sfera virtuale, altri anche in quella reale. Circa un anno fa ho conosciuto Wael Ghonim - amministratore della pagina Facebook degli Amici di Khaled Said, l'altro gruppo protagonista della rivoluzione del 25 gennaio (ndr) - durante un seminario nel quale abbiamo studiato programmazione strategica: da quel momento abbiamo cominciato a coordinarci. Ai nostri due gruppi si sono uniti molti altri movimenti giovanili, tra i quali anche gli Shabab al Ikhwan, un gruppo di giovani Fratelli Musulmani che, diversamente da quanto deciso dalla leadership del movimento, sono stati con noi sin dall'inizio.
[La rivoluzione tunisina] ha rivoluzionato il pubblico virtuale egiziano. Su Facebook moltissimi hanno iniziato a dire che era giunto il momento che anche l'Egitto si accendesse. Il 18 gennaio mi sono incontrato con Wael Ghonim a Doha e abbiamo iniziato a mettere nero su bianco le nostre rivendicazioni. Quando sono sceso in strada il 25 gennaio pensavo che quella sarebbe stata una marcia capace di aprire una nuova epoca dell'attivismo egiziano, ma non pensavo che la rivoluzione sarebbe scoppiata. Non appena vidi quanta gente si aggiungeva a noi, capii che la rivoluzione era già iniziata. Anche se non ci eravamo fissati una data, era scoppiata".

Fonte: Azzurra Meringolo, "Per rovesciare Hosni studiavamo Belgrado", Il Riformista, 23/02/2011

Sull'argomento: Simone Santini, "Affittasi Rivoluzione", Clarissa.it
http://www.clarissa.it/editoriale_int.php?id=144&tema=Divulgazione

jeudi, 24 février 2011

Démocratie, islam et destin

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Démocratie, islam et destin

par Claude BOURRINET

Il n’est sans doute pas inutile de se moquer, comme le fait  dans Valeurs actuelles du 10 février 2011, dans son article « Où va la Tunisie ? », Hervé Coutau-Bégarie, directeur de recherches en stratégie à l’École de Guerre (ex-Collège interarmées de défense), des éloges dithyrambiques qui accompagnent les « révolutions » du Maghreb et du Proche-Orient, perçues comme des pas importants vers la démocratie. Il ne pouvait pas en être autrement, la « démocratie » et les « droits de l’homme » étant plus une religion qu’un régime. Nos sociétés désacralisées, laïcisées, partagent plus de traits qu’elles le croient avec des régimes qu’elles s’attachent à honnir. Ses intellectuels et ses journalistes s’emballent facilement, et ont des accents de bonnes sœurs dominicales sous leur parapluie vaticanesque. On a beau jeu alors de rappeler certains « dérapages », comme le fait Couteau-Bégarie, qui cite le cas de Foucault soutenant la révolution islamiste d’Iran. Il est exact que les thuriféraires d’un moment peuvent changer, comme les ex-staliniens ou maoïstes à la Adler, B.H.L., etc., sont devenus de farouches (et sournois) partisans de l’Amérique, tout en restant par ailleurs fidèles à Israël. Aussi laissons Foucault en paix : nous ne savons pas ce qu’il aurait dit de tout cela.

Je ne discuterai pas pour savoir comment des kleptocraties corrompues, policières, considérant leurs peuples comme des indigènes colonisés, se comportant donc comme des forces d’occupation, ont pu se maintenir si longtemps. Il fallait bien qu’ils rendissent quelque service à l’oligarchie transnationale et, subsidiairement, à l’État sioniste. Le complexe militaire (lié au pétrole ou à la manne américaine) est, dans ces pays, un État dans l’État, une caste dont les racines sont à chercher dans l’atavisme ottoman. Le plus amusant est la capacité pour l’ordre mondial de recycler de vieux modèles pour les postmoderniser.

Cependant, nous voyons bien que ce système globalisé possède des failles, singulièrement dans ses composantes techniques, médiatiques, communicationnelles, qui le fragilisent après l’avoir renforcé. On serait, pour le moins, presque marxiste, en avançant que la dialectique de son processus productif l’entraîne à sa perte. Au demeurant, il faut avouer que l’islam se met aussi à la page, et qu’il a su se plier aux exigences techno-scientifiques contemporaines. De nombreux intellectuels d’ailleurs en sont d’ardents défenseurs, parfois davantage que des classes populaires affamées et abruties par la propagande.

Il faut donc prendre acte qu’un ensemble de peuples reprennent lentement conscience de leur identité profonde, tentent de rejeter les éléments allogènes qui nuisent à leur destin historial, et font ce qu’il faut pour cela. J’ai beau tourner la question dans tous les sens, à moins d’être un sioniste ethnocentrique (c’est un pléonasme), ou un « identitaire » d’une ignorance crasse (c’est aussi un pléonasme), je ne vois pas ce qu’il y a de scandaleux à ce que des musulmans veuillent une société musulmane, et que des peuples souhaitent être libres, se débarrassant du même coup des auteurs de leur misère et de leur humiliation. On les accuse d’antisémitisme. Qu’on me montre quels services a pu leur octroyer l’État hébreux, sinon un appui logistique et militaire pour les abaisser. À quoi sert donc l’armée égyptienne, armée et entraînée par les fidèles alliés d’Israël ? À qui devrait-elle faire la guerre ? Elle a été conçue comme une armée de guerre civile.

En tout cas, on devrait s’inspirer, nous, Européens, de ce qui se passe outre-Méditerranée. Ne sommes-nous pas dépossédés de notre destin, nous aussi ?

Maintenant, je suis consterné par l’importance que l’on accorde à certains mots, sans s’interroger sur les connotations qui s’y attachent, positives ou négatives. Il me semble que la tâche d’un intellectuel est de prendre des distances par rapport au lexique, qui draine tout un tas de pièges sémantiques. Les termes « islam » et « démocratie » sont de ceux-là. Le premier traîne à sa suite des préjugés et pas mal d’ignorance, dans la mesure même où il n’existe pas un seul islam, ni une seule forme politique, sociologique ou idéologique s’y attachant. Quel rapport entre l’islam d’Erdogan et celui de Ben Laden ? Entre le chiisme et le sunnisme ? Entre le Hamas et le F.I.S. ? Au sein des Frères musulmans égyptiens, nous voyons aussi des lignes de fracture, entre les tenants de la modernité et les autres. Ce que nous pourrions désirer le plus, c’est que ces pays redeviennent eux-mêmes, retenant ou attirant leurs peuples, au lieu de les voir filer chez nous. La période des cinquante dernières années est-elle si probante en ce domaine ?

D’autre part, je pense qu’il n’est pas besoin de trop revenir sur ce qu’est la démocratie, non seulement dans les pays arabes, mais même chez nous. Je n’ai pas l’impression de vivre dans une démocratie exemplaire. Et nous savons très bien comment les décisions du « peuple » (quel peuple ?) sont pipées, décidées, manipulées, télécommandées. Donc, nous n’avons pas de leçon à donner aux autres.

Pour ma part, la question de la forme de gouvernement est un faux problème. Ce que je demande à mon pays, c’est qu’il soit libre, fier, digne, fort. Le reste m’intéresse peu. Napoléon est la seule excuse de la Révolution.

On est loin du compte. Au lieu de nous occuper des islamistes, regardons de plus près ce que font chez nous les atlantistes et les sionistes.

Claude Bourrinet


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=1883

mardi, 22 février 2011

Bernard Lugan: la différence entre le Maroc et l'Algérie

Bernard Lugan:

la différence entre le Maroc et l'Algérie

 

dimanche, 20 février 2011

Clandestins tunisiens: l'invasion programmée

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Clandestins tunisiens: l'invasion programmée

par Yves Darchicourt

http://blogdemariepauledarchicourt.hautetfort.com/

En Italie, nos camarades et amis de la Ligue du Nord nomment les choses par leur nom : c'est une invasion qui déferle de Tunisie vers l'Europe et d'abord vers l'Italie. La France est concernée elle aussi et directement. Il se trouve qu' une forte partie des quelques 5500 tunisiens qui viennent de débarquer quasiment de vive force sur la malheureuse petite île de Lampedusa n'aurait comme objectif que de gagner notre pays !

Le maire de Lampedusa a ainsi déclaré : " Sur 2.600 tunisiens que j’ai rencontré, 75 % veulent venir en France ! J’ai parlé avec eux, ils n’ont que ce mot à la bouche : la France. Ils ne parlent pas de rester en Italie ! Il faut arrêter de laisser l’Italie seule face à ce problème ! En tant que maire de Lampedusa je veux m’adresser au Président Nicolas Sarkozy : c’est aussi votre problème et vous devez prendre conscience de cela et agir, parce que demain, ce sont 3.000 immigrés tunisiens qui seront à votre porte !"  (source pfn limousin)

Quelles sont les mesures prises par Sarközy face à ce qui s'apparente donc fort à une menace d' invasion barbaresque ? Rien du tout ! Pire même, on ne voit pas là une invasion et Hortefeux vient de déclarer que face à cette situation " la règle qui s'appliquera, c'est celle de notre politique migratoire. Un étranger en situation irrégulière a vocation à être reconduit dans son pays d'origine sauf situation humanitaire particulière" : ce qui revient à dire que la menace ne sera pas traitée globalement comme telle mais que les autorités françaises vont négocier au cas par cas.   

Dans ce domaine, négocier c'est composer et finalement céder ! On sait très bien comment tout cela va se terminer : au risque d'invasion subie, on va substituer l'inestimable chance pour la France de l'invasion choisie ! 

Rassemblement - Résistance -Reconquête ! Vite ! Très vite !

Yves Darchicourt

Les révoltes dans le monde arabe

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Les révoltes dans le monde arabe...

Par Hervé Coutau-Begarie*

Valeurs actuelles

 

Ex: http://synthesenationale.hautetfort.com/

 

Les événements actuels au Maghreb et au Machrek ont indéniablement une immense portée historique. On s’était habitué à des régimes politiques arabes dictatoriaux qui se maintenaient indéfiniment au pouvoir en combinant corruption, répression et nationalisme. Aucun pays arabe, en mettant à part le cas particulier du Liban, n’est une démocratie.

 

Certains régimes sont capables d’une relative efficacité économique, comme en Tunisie, alors que d’autres sont à la fois corrompus et inefficaces, comme en Algérie. Certains affirment leur nationalisme mais en laissant en paix leurs minorités, comme la Syrie. D’autres persécutent leurs minorités, spécialement les chrétiens, pour donner des gages aux islamistes, comme l’Égypte.

 

Aucun de ces régimes n’est vraiment défendable au regard de nos critères démocratiques. Le plus présentable est celui du Maroc, avec une monarchie qui réussit, en profitant de l’appartenance du roi à la descendance du Prophète, à contrôler le jeu des partis politiques. Partout ailleurs, c’est le règne du parti unique, éventuellement flanqué de quelques satellites sans consistance. Personne ne versera des larmes sur le sort de Ben Ali ou de Moubarak, ou de Saleh au Yémen. Nos intellectuels de gauche retrouvent leur fibre révolutionnaire et se félicitent de la révolte de la rue. Libération célèbre en gros titres, à propos de l’Égypte, « Le jour du peuple », tandis que le Monde salue le « dialogue historique» entre le pouvoir égyptien et les Frères musulmans.

 

Tout le monde souhaite l’avènement de gouvernants compétents, attentifs aux besoins de leur peuple et ouverts à la démocratie. Reste à savoir s’il ne s’agit pas d’une alternative imaginaire plutôt que d’un futur plausible. Les envolées lyriques de certains commentateurs rappellent un peu trop les emballements des mêmes à l’annonce de la révolution islamique iranienne. Le chah était le pire des dictateurs et la démocratie islamique était à portée de la main. Michel Foucault publiait, dans le Nouvel Observateur, un article consternant d’aveuglement, dont même ses thuriféraires parlent aujourd’hui avec embarras. Bien entendu, l’histoire n’est pas obligée de se répéter. Mais il faut bien reconnaître que les obstacles sur la voie de la démocratie et du progrès sont nombreux.

 

D’abord parce qu’il n’y a pas vraiment de solution de rechange. Des décennies de dictature ont étouffé toute vie politique normale. En Égypte, aucune figure n’émerge pour remplir le vide du pouvoir. Mohamed el-Baradei est un technocrate compétent, prix Nobel, bien considéré à l’étranger, mais très peu connu dans son pays. Que la censure soit abolie demain et l’on assistera à la prolifération anarchique de partis sans programme, sans cadres formés, qui seront le plus souvent des instruments au service de l’ambition de tel ou tel. C’est la suite logique de toute révolution. Le temps entraîne un écrémage, mais ici, il n’est pas certain que l’on puisse compter sur lui.

 

Car, à côté des démocrates, il y a toujours les islamistes, qui restent en embuscade. On objectera, souvent avec raison, que la menace islamiste a été exagérée par les régimes en place pour justifier la répression policière. Ou que les islamistes ne représentent pas la masse de la population, notamment la jeunesse qui, à travers Internet, s’est ouverte au monde et aspire à la démocratie. Cela n’est nullement évident. L’impact des islamistes est très réel dans la population. Ils sont à peu près les seuls à disposer d’un minimum d’organisation et d’un programme immédiatement applicable. Dans un premier temps, on les verra, comme les communistes hier sous d’autres cieux, proposer des alliances et avancer avec un profil bas (en 1979, les ayatollahs proposaient aux femmes iraniennes une “tenue islamique légère”). Une fois au pouvoir, l’islamisation rampante commencera et, lorsque les démocrates se décideront enfin à faire taire leurs divisions, il sera probablement trop tard.

 

Si l’on peut supposer que les rois du Maroc et de Jordanie ont encore les moyens de contrôler les événements, si l’on peut espérer que la classe moyenne tunisienne est suffisamment solide pour résister à la tentation islamiste, il est permis d’avoir davantage de doutes sur l’avenir de l’Égypte. C’est le plus peuplé des pays arabes, c’est lui qui a signé la paix avec Israël et il est l’un des piliers de la politique américaine au Moyen-Orient. Si le régime bascule vers un islamisme imprévisible, les conséquences géopolitiques seront immenses. Pour Israël d’abord, qui devrait réévaluer sa relation avec son puissant voisin. Pour les États-Unis, dont l’alliance de fait avec le monde musulman serait sérieusement écornée. Pour l’Europe, qui devrait cohabiter avec un régime islamiste à ses portes, contrôlant un pays de plus de 80 millions d’habitants. Tout cela impose une grande prudence. L’Europe n’a guère de moyens d’intervenir dans ce grand ébranlement du monde arabe. Elle ne peut que suivre, encourager les forces démocratiques, si cela se peut, en se gardant de les compromettre. Elle doit surtout rester lucide face à un risque de dérapage qui ne peut jamais être exclu.

 

 

(*) Hervé Coutau-Bégarie est directeur de recherches en stratégie au Collège interarmées de défense. Il est, entre autres, l’auteur d’un Traité de stratégie qui fait autorité.

samedi, 19 février 2011

Nieuwe Arabische revoluties?

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Nieuwe Arabische revoluties?

Pieter Van Damme

Ex: http://n-sa.be/

Sinds enkele weken trekt er een golf van publiek protest door een aantal Arabische landen. Het vuur werd aan de lont gestoken door de zelfverbranding van Mohamed Bouazizi in Tunseië, halverwege december 2010. Dit leidde tot de Jasmijnrevolutie die in januari de val van het bijna 25-jarige bewind van Zine Ben Ali tot gevolg had. De volksopstand sloeg over naar Egypte waar massaal protest al weken het openbare leven in de grote steden verlamt. Voorlopig blijft dictator Hosni Moebarak nog op post, ondanks zware druk vanwege de Egyptische bevolking. Z'n Tunesische collega Ben Ali vluchtte met zijn familie naar Saoedi-Arabië. Ook in landen als Jordanië en Algerije broedt al jaren een volkswoede tegen het heersende regime.

Wat moeten wij voor ogen houden bij deze gebeurtenissen? Twee zaken: wat is positief of negatief voor Europa bij deze veranderingen en wat zijn de oorzaken die leidden tot deze volksopstanden? De oorzaken voor deze wijd verspreidde volkswoede in de Arabische wereld zijn niet ver te zoeken: het reeds decennialange liberale wanbeleid op economisch vlak, gecombineerd met een dictatoriaal beleid op politiek vlak waarbij corruptie en clan-verrijking het steeds weer halen op het algemeen belang, stevig omkaderd met een omvangrijk repressieapparaat. Het is geen toeval dat de volkswoede in de Arabische wereld vooral daar bloeit waar pro-Westerse regimes sinds jaren de lakens uitdelen. Presidenten zoals Moebarak en Ben Ali hebben hebben op sociaal-economisch vlak een beleid gevoerd dat bestaat uit verregaande liberaliseringen, het aantrekken van multinationale ondernemingen, uitbouw van massatoerisme,... terwijl de gewone man er de facto niet veel beter van werd. Meer nog, terwijl er een beperkte rijke bovenlaag ontstond die profiteerde van dit wanbeleid, steeg de werkloosheid voor de bevolking. Familiale verrijking voor die bovenlaag woekert door het afromen van winsten op massatoerisme en afdrachten die aan multinationals opgelegd worden verdwijnen in familiefortuinen in plaats van de staatskassen.

Ben Ali heeft sinds 1987 in Tunesië een ultraliberale politiek gevoerd. Tunesië heeft de voorbije jaren steevast de extremistische aanbevelingen van het IMF nauwgezet opgevolgd, onder applaus van multinationals, de EU, het Franse regime... Nog in het najaar van 2010 verklaarde de als sociaal-democraat vermomde liberaal Strauss-Kahn dat het economische beleid van Tunesië gezond en als voorbeeldig mocht aanzien worden voor andere "opkomende landen". Het feit dat de voormalige Ben Ali-knecht Ghannouchi nu na de vlucht van z'n president de macht probeert te behouden via een voorlopige regering van nationale eenheid, komt het Westen goed uit. Ze vreesden immers dat de Jasmijnrevolutie zou voortgaan en de belangen van de multinationals en de profiterende financiële elite onder druk zou zetten. Hogere lonen, wettelijk vastleggen van sociale rechten, het verhelpen van de Derde Wereld-toestanden op het platteland... zouden deze belangen (lees: winsten) aantasten.
Ben Ali heeft zijn dictatuur steeds gerechtvaardigd met het excuus van een "islamistisch gevaar" ook al is de aanhang van o.a. de religieuze Nahda-partij (vergelijkbaar met de Turkse AKP) in Tunesië beperkt. Premier Ghannouchi verkondigde de voorbije dagen al in vraaggesprekken dat oude getrouwen van het Ben Ali-regime op economische functies op post blijven om de geplande economische hervormingen gewoon door te laten gaan.
In Egypte voerde Moebarak eveneens een beleid van voortschrijdende economische liberaliseringen die uiteraard op geen enkel vlak ten goede kwamen aan de jonge bevolking. Vele Egyptenaren moeten zien rond te komen met 1 euro per dag of minder. Er heerst massale werkloosheid en de voedselprijzen swingen net als in de rest van de Arabische wereld de pan uit. Moebarak maakte er een gewoonte van diverse verworvenheden en creaties van voormalig president Nasser ongedaan te maken via een neoliberaal beleid: devaluatie van de Egyptische Pond, privatisering van overheidsbedrijven, beperking van subsidies en sociale voorzieningen, afbraak van het overheidsapparaat. Dit ging samen met subsidies aan de private sector (vnl. multinationals en investeringen in economische sectoren die Egypte op de wereldkaart moesten zetten: massatoerisme, nieuwe media en infrastructuur) en een stelselmatige besparing op het publieke onderwijs. Met als gevolg dat de zich ontwikkelende, groeiende middenklasse uiteenviel in een kosmopolitische liberale bovenlaag die mee profiteerde op de rug van de gewone bevolking, en een verarmde lagere middenklasse.

Ondertussen kreeg Moebarak jarenlang aanzienlijke financiële en militaire steun vanuit de USA als gevolg van het vredesakkoord dat hij afsloot met de terreurstaat israël in 1979. Het regime van Moebarak betekende voortaan een verlamming van het rechtvaardige Arabische protest tegen de bezetting van het Palestijnse land en een levensverzekering voor de zionistische entiteit. Het hoeft dan ook niemand te verbazen dat israël zich de voorbije week als enige uitdrukkelijk pro-Moebarak uitsprak en de Europese landen net als Noord-Amerika opriep tot actieve steun aan zijn regime. Bovendien was het regime van Moebarak een verzekering dat de controle over het Suez-kanaal "in goede handen" bleef. In ruil verkreeg Moebarak gigantische hoeveelheden Amerikaanse wapens (bijna achthonderd M1 Abrams tanks, de Egyptische luchtmacht werd na de USA en israël de derde grootste gebruiker van F-16 straaljagers ter wereld...) en bouwde hij met Amerikaans-israëlisch toezicht een omvangrijke oproer- en veiligheidspolitie uit. In de jaren '90 werd deze op grote schaal ingezet tegen het Moslimbroederschap dat al decennia een belangrijke speler in de Egyptische oppositie is, alsook tegen andere islamistische groepen. Als trouwe bondgenoot van de VS beloofde Moebarak na 11 september 2001 alle hulp in de strijd tegen het terrorisme. De Egyptenaren doorzien dan ook de hypocrisie van de USA die halfslachtig aandringt op "democratisering" vanwege de gehate Moebarak terwijl ze op straat beschoten worden met traangasgranaten waarop "made in USA" vermeld staat. De moslimextremisten waren voor Moebarak een argument om de macht stevig in handen te houden via ondermeer massale verkiezingsfraude. Zonder hem zouden de radicale islamieten het land overnemen, zo verdedigde hij zich net zoals Ben Ali in Tunesië steeds tegen kritiek vanuit Westerse landen die hem de hand boven het hoofd hielden en houden.

Vanuit Europees perspectief hebben wij hoe dan ook nood aan een stabiele Arabische wereld waar goede relaties mee onderhouden worden. De belangrijkste redenen zijn de grondstoffen die Europa nodig heeft. En een noodzakelijke remigratiepolitiek die in de toekomst miljoenen vreemdelingen laat terugkeren naar hun landen van herkomst via bilaterale akkoorden met deze landen van herkomst. Deze remigratiepolitiek moet omkaderd worden met een heroriëntering van de ontwikkelingshulp, een realistische tijdsplanning, het afleveren van zoveel mogelijk geschoolde remigranten aan die landen van oorsprong en een beleid dat vrijwillige gescheiden volksontwikkeling aanmoedigt in onze eigen Europese landen.

Het hoeft geen betoog dat een stabiel Arabisch schiereiland en Noord-Afrika onmogelijk zijn, zo lang de staat israël blijft bestaan. De creatie en het voortbestaan van israël is gebaseerd op morele chantage (schuldgevoel jegens de Joden na WO2), etnische zuivering (het verjagen van honderdduizenden Palestijnse Arabieren), permanente financiële stromen als gevolg van lobbywerk (vooral ten nadele van de Amerikaanse belastingbetaler) en het cultiveren van morele chantage (het schuldgevoel als basis voor schadevergoedingen) alsook permanente racistische discriminatie (Arabieren met israëlisch staatsburgerschap hebben minder rechten dan Joden met israëlisch staatsburgerschap). Rechtse partijen en groepen (bijvoorbeeld de PVV van Geert Wilders, de VB-strekking rond Filip Dewinter, Pro Deutschland, de FPÖ...) die vanuit welke beweegreden dan ook een wereldwijde kruistocht tegen "de islam" steunen, bemoeilijken in ernstige mate elk terugkeerbeleid van Arabische/Noord-Afrikaanse vreemdelingen naar de landen van oorsprong omdat zij een conflictueuze relatie met deze landen op het oog hebben. De islam hoort niet thuis in Europa, maar wel in die gebieden waar zij cultureel ingebed is, waaronder Noord-Afrika en het Midden-Oosten.

Welke nieuwe regimes in de Arabische wereld zullen ontstaan, valt af te wachten en zou volledig een zaak van de Arabieren moeten zijn, zonder de Amerikaanse bemoeizucht en de zionistische intriges. De EU verschuilt zich in de voorbije weken weer in een houding die getuigt van slapheid, besluiteloosheid en morele angst als gevolg van jarenlange chantage. Steun aan het seculiere volksverzet is gerechtvaardigd en in het belang van Europa, dat eens de Arabische sociaal-nationalisten inspireerde. De problemen van de Arabieren in hun dagelijkse leven alsook in hun mogelijkheden om welvarende staten op te bouwen aan het begin van de 21ste eeuw, bewijzen dat nationale én sociale vernieuwingen het antwoord kunnen bieden. Religieuze dictatuur of Westers gezinde plutocratie kunnen dit geenszins. Gelet op de voorlopig succesvolle pogingen om de oude regimes in hun macht te herstellen (Tunesië via regering van nationale eenheid) of ze aan de macht te houden (de financiële machten achter Moebarak die aanhangers betalen om protest gewelddadig te lijf te gaan) is het vooralsnog de vraag of er wel van Arabische revoluties kan gesproken worden.

Afrique : à qui profite le carnage?

Afrique : à qui profite le carnage ?

Cet article de Jean-Dominique Merchet est paru dans Marianne, n° 707 – Magazine, samedi 6 novembre 2010, p. 70.

Dans « Carnages – Les guerres secrètes des grandes puissances en Afrique », dont nous publions en exclusivité des extraits, Pierre Péan révèle les guerres secrètes que se livrent les puissances occidentales à l’ombre des massacres, dans la région des Grands Lacs. Une cynique partie d’échecs d’où les Etats-Unis, aidés de la Grande-Bretagne et d’Israël, évincent peu à peu la France.

 

Peut-on cacher un génocide ? La question semble à peine croyable, et c’est pourtant celle qui se trouve au coeur du nouvel ouvrage de Pierre Péan, « Carnages – Les guerres secrètes des grandes puissances en Afrique ». Sur près de 600 pages, le journaliste français revient, avec de nombreuses révélations, sur les «guerres secrètes» en Afrique, en particulier dans la région des Grands Lacs.

La thèse qu’il défend – et qui ne manquera pas de provoquer de vives polémiques – est qu’à la suite du premier génocide au Rwanda, en 1994, un second a été commis, en 1996-1997, par les victimes de la veille – les Tutsis – à l’encontre des Hutus réfugiés en République démocratique du Congo (RDC, ex-Zaïre). Et que ces massacres, qui ont causé la mort de millions de personnes, se sont déroulés avec la bienveillance des Etats-Unis, quand ce n’est pas leur participation directe, comme le montrent les extraits que nous publions.

Une « question irrésolue »

Depuis 1994, la France est régulièrement accusée de complicité dans le génocide du Rwanda. Pierre Péan avait consacré en 2005 un premier livre – « Noires fureurs, blancs menteurs » (Fayard) – à la réfutation de cette thèse. Il renverse aujourd’hui carrément la table en accusant les procureurs d’être complices de massacres à grande échelle !

 

L’actualité sert sa thèse. Publié en août 2010, un rapport du Haut-Commissariat des Nations unies aux droits de l’homme évoque pour la première fois de manière officielle, même si c’est avec les prudences diplomatiques d’usage, la possibilité qu’un second génocide ait bien été commis par les troupes du président rwandais Paul Kagamé et de ses alliés : « La question de savoir si les nombreux graves actes de violence commis à l’encontre des Hutus (réfugiés et autres) constituent des crimes de génocide demeure irrésolue jusqu’à présent ».

En clair : on ne peut plus l’exclure ! Ce rapport a suscité la colère du Rwanda autant que la gêne chez ses alliés américains. Les soutiens français de Kigali – qui ne veulent connaître que les supposés crimes de l’armée française et les turpitudes de la politique de François Mitterrand – sont consternés.

Fidèle Israël

Pierre Péan, lui, jubile. Et cogne encore plus fort, au risque de prendre quelques mauvais coups. L’homme ne fait pas dans la dentelle. On lui doit des enquêtes journalistiques qui ont fait date : celle sur le passé vichyste de Mitterrand (« Une jeunesse française », Fayard, 1994), sur le journal le Monde (« La Face cachée du Monde », avec notre collaborateur Philippe Cohen, Mille et Une Nuits, 2003) ou plus récemment sur Bernard Kouchner (« Le Monde selon K », Fayard, 2009).

Mais la grande passion de ce journaliste, né en 1938, est l’Afrique, un continent qu’il arpente depuis 1962. Carnages est une somme, celle de « Pierre l’Africain », comme disent ses amis. Il y raconte le jeu des grandes puissances, Etats-Unis en tête, sur ce continent depuis la Seconde Guerre mondiale.

Son propos est centré sur la région des Grands Lacs : Rwanda, Ouganda, Soudan, RDC… Une région regorgeant de minerais et de querelles ethniques, d’ambitions politiques et de massacres à grande échelle. Des millions de civils – personne ne connaît le chiffre exact – y sont morts en une quinzaine d’années.

Ce qui révolte Pierre Péan, ce sont « les militants qui trient entre les bons et méchants morts, en usant du tamis de la repentance », comme si les « maux d’Afrique ne s’expliquaient que par un seul mot : la France ».

Cette France qui a été mise hors jeu par les Américains, à deux reprises, lorsque Jacques Chirac voulut déclencher une opération militaro-humanitaire pour venir en aide aux réfugiés (lire pages suivantes). Pierre Péan révèle par exemple comment les hommes de la DGSE infiltrés au Congo durent être rapatriés illico, sans doute à la demande de Bill Clinton.

La parution de « Noires fureurs, blancs menteurs avait valu de sérieux ennuis à son auteur, tant il remettait en cause le consensus « droits-de-l’hommiste » au sujet du Rwanda. Homme de gauche, « j’étais devenu pour une fraction de l’élite française raciste, révisionniste, négationniste et antisémite », confie-t-il. Des procès lui furent intentés, en France et en Belgique.

SOS Racisme l’accusa d’ « incitation à la haine raciale », son président, Dominique Sopo, expliquant qu’ « évoquer le sang des Hutus, c’est salir le sang des Tutsis ». Débouté en appel en novembre 2009, SOS Racisme s’est pourvu en cassation. Auprès de ses ennemis, le nouveau livre de Péan ne va pas arranger son cas.

Non seulement il s’en prend au « trucage des chiffres des victimes » par le régime rwandais, mais il décrit en détail le rôle peu connu de l’Etat d’Israël dans cette région. L’Etat hébreu, fidèle allié de Kagamé – une alliance qui va au-delà des intérêts stratégiques bien réels des parties en présence et repose sur la vision d’une concordance symbolique entre la Shoah et le génocide de 1994. Critiquer le Rwanda reviendrait en quelque sorte à s’en prendre à la Shoah…

« J’en vins à me demander s’il n’y avait pas un lien entre les attaques dont j’étais l’objet de la part de l’Union des étudiants juifs de France, de l’Union des patrons et des professionnels juifs de France et d’intellectuels comme Elie Wiesel, et l’intérêt géopolitique porté par Israël au Rwanda », s’interroge Péan.

L’enquêteur ajoute aujourd’hui une nouvelle pièce au dossier, en abordant la question du Soudan. Il établit un lien entre la volonté de l’Etat d’Israël d’affaiblir – en le divisant – le plus grand pays d’Afrique et les campagnes humanitaires, en France comme aux Etats-Unis, sur les massacres au Darfour. Voilà qui ne va certainement pas apaiser le débat… Mieux vaut donc juger sur pièces.

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EXTRAITS

Une version tronquée de l’histoire des Grands Lacs

Plus de 8 millions de morts ? Qui en parle ? Depuis la fin de la guerre froide, la région des Grands Lacs est devenue celle de la mort et du malheur dans une indifférence quasi générale.

Avec 2 millions de Rwandais exterminés en 1994 à l’intérieur du Rwanda (1), plus de 6 millions de morts rwandais et congolais dans l’ex-Zaïre, des centaines de milliers de Soudanais tués, de nombreuses victimes ougandaises, plus de un demi-million de morts angolais, des millions de déplacés, quatre chefs d’Etat et des centaines de ministres et autres dirigeants assassinés, des dizaines de milliers de femmes violées, des pillages éhontés, cette zone a le triste privilège d’avoir subi plus de dommages que ceux additionnés de toutes les guerres intervenues de par le monde depuis la fin de la Seconde Guerre mondiale.

Pourtant, les médias, dans leur très grande majorité, n’ont parlé, ne parlent et ne pleurent que les centaines de milliers de victimes tutsies du Rwanda, dénoncent les Hutus comme seuls responsables directs de ces boucheries, et les Français, qui les auraient aidés dans leur horrible besogne, faisant de François Mitterrand et d’Edouard Balladur des réincarnations d’Hitler, et des soldats français, celles de Waffen SS.

Une version officielle, affichée non seulement par Paul Kagamé, l’actuel président du Rwanda, mais également par le Tribunal pénal international pour le Rwanda (TPIR), le bras justicier de la communauté internationale, et par les Etats-Unis, le Royaume-Uni et la majorité des autres pays…

(1) Chiffre fourni par le ministère de l’Intérieur rwandais en décembre 1994.

Les gardiens de la vérité officielle

Convaincu par mes enquêtes que Paul Kagamé, l’actuel chef d’Etat du Rwanda, avait commandité l’attentat contre l’avion qui transportait son prédécesseur – attentat qui déclencha en avril 1994 le génocide des Tutsis et des massacres de Hutus -, quand il était attribué aux extrémistes hutus, je décidai en 2004 de chercher à comprendre ce qui s’était réellement passé.

Je découvris rapidement l’incroyable désinformation qui avait accompagné la conquête du pouvoir par Paul Kagamé, et les moyens mis en oeuvre pour décourager ceux qui seraient tentés de s’opposer à la doxa. Des moyens qui ressemblent fort à des armes de destruction massive : grâce à une analogie abusive entre le génocide des Tutsis et la Shoah, les gardiens de la vérité officielle traitent les contrevenants de négationnistes, de révisionnistes, de racistes, voire d’antisémites.

[...] J’ai décidé de reprendre mon enquête et de l’étendre en l’insérant dans l’histoire de la région des Grands Lacs et de l’Afrique centrale, pour comprendre comment et pourquoi avait pu ainsi s’installer une version tronquée de l’histoire de la tragédie rwandaise. [...]

J’ai travaillé à mettre au jour les actions – ouvertes et clandestines – des Etats-Unis, depuis les années 80, dans la région des Grands Lacs, visant à un nouveau partage des zones d’influence sur le continent africain, et le  » scandale géologique  » que constitue le fabuleux sous-sol du Zaïre, redevenu aujourd’hui Congo et convoité par tous. [...]

Contre-offensive impossible

Officiellement, à partir d’octobre 1996, le Zaïrois Laurent-Désiré Kabila a mené une guerre de libération en vue de chasser le président corrompu Mobutu Sese Seko. La réalité fut bien différente : Laurent-Désiré Kabila n’était alors qu’une marionnette de Kigali, de Kampala et de Washington.

Une nouvelle boucherie, après celle du Rwanda, visant cette fois à exterminer les seuls Hutus ayant fui le Rwanda, déclarés « extrémistes » par la propagande, se déroula dans un silence assourdissant des principaux médias.

Les services secrets français étaient parfaitement au courant que des forces spéciales américaines, les services secrets et des avions américains renseignaient les soldats rwandais et ougandais dans leur chasse aux Hutus dans l’immense Est congolais. L’exécutif français s’interrogea alors sur l’opportunité d’arrêter la marche de Kabila et de ses « parrains » sur Kinshasa.

La désinformation efficace sur le rôle de la France en Afrique en général et au Rwanda en particulier rendait désormais impossible toute contre-offensive, qui aurait mis face à face Français et Américains. Jacques Chirac décida in fine de ne pas envoyer de forces spéciales françaises à Kisangani début 1997.

Quand l’armée américaine participe à la traque des Hutus au Congo…

Washington porte une lourde responsabilité dans ce qu’un prérapport de l’ONU rendu public en août 2010 décrit comme un probable génocide commis en République démocratique du Congo en 1996 et 1997.

Pourquoi tant de diplomates, tant de militaires et d’agents secrets américains ont-ils été mobilisés pour parler d’une situation que les journalistes ne pouvaient directement appréhender ? Parce que la grande puissance américaine, celle qui, avec ses satellites, ses écoutes, ses hélicoptères et ses avions, aidait ceux qu’on nommait « rebelles », mais qui, en réalité, étaient en très grande majorité des Rwandais ou des Ougandais, à localiser les prétendus « génocidaires » pour les liquider.

Comment ne pas être révolté par la passivité, voire par la bienveillante sollicitude du Haut-Commissariat aux réfugiés ? Comment accepter la propagande officielle de l’époque, qui voulait que les Hutus n’eussent que ce qu’ils méritaient et que les Tutsis exerçassent là un légitime droit de revanche ? Alors que, justement, la version officielle de l’histoire, reçue et acceptée par la communauté internationale, est fausse ?

[...] Les services secrets français – Direction du renseignement militaire (DRM) et Direction générale de la sécurité extérieure (DGSE) – sont très avertis de ce qui se passe aux frontières du Kivu, fin octobre-début novembre 1996.

Le camp de Kibumba dans la région de Goma est bombardé : quelque 200.000 réfugiés partent vers le camp de Mugunga. Le camp de Katale est attaqué à l’arme lourde, et Bukavu, la capitale du Sud-Kivu, est pris par les « rebelles ». Les camps des alentours sont détruits, provoquant la fuite de 250.000 personnes à travers la forêt équatoriale vers Kisangani…

Militaires et services ne se contentent pas des images satellite fournies par les Américains, sur lesquelles on ne voit pas de réfugiés ; elles ne donnent à rien voir qui corresponde aux informations qui leur remontent du terrain, par de nombreuses sources humaines. Début novembre 1996, un Breguet Atlantic localise des cohortes de réfugiés et rapporte des photos qui montrent deux hélicoptères américains, des Black Hawks.

Poker menteur entre Paris et Washington

Les espions français s’interrogent sur le rôle des bérets verts, les commandos des US Army Special Forces, lors des massacres qui ont suivi la prise de Bukavu, fin octobre 1996. Ils se demandent aussi quelle est l’origine des mitraillages aériens opérés de nuit contre les camps de réfugiés : « Cela pose de graves questions quand on sait que parmi les avions américains déployés figurait au moins un C-130 Gunship des forces spéciales, véritable canonnière volante. Que faisait-il là si, comme le disait alors le commandement américain, il s’agissait seulement de rechercher des réfugiés pour étudier ensuite les moyens de leur porter assistance ? »

Malgré ce questionnement sur le rôle ambigu de Washington, pas plus l’état-major que les politiques français n’envisagent une quelconque action sans les Américains ou, à plus forte raison, contre eux. Mais la « forte dégradation de la situation humanitaire » entraîne les uns et les autres à envisager dans les plus brefs délais une opération militaire multinationale dans le Kivu, tout au moins à en émettre l’idée. Le Centre opérationnel interarmées (COIA) est chargé par l’état-major d’en définir les contours possibles.

Le 5 novembre, une note signée de Jean-Pierre Kelche, major général de l’état-major, arrive sur le bureau du ministre de la Défense, Charles Millon : « L’effet majeur d’une opération militaire au Kivu visera à stabiliser les réfugiés dans une zone dégagée de forces constituées ».

Les rédacteurs estiment indispensable la participation de pays européens (France, Espagne, Belgique, Allemagne et Grande-Bretagne), mais soulignent qu’un «commandement centralisé (préconisé) devrait être proposé aux Américains dont la présence au sol garantirait la neutralité rwandaise». « L’action militaire sera limitée à une sécurisation de zones, au profit des organisations humanitaires ». Le général Kelche envisage un déploiement de 1.500 à 2.000 hommes.

Le lendemain, lors d’un conseil restreint de défense, Jacques Chirac accepte les propositions du COIA, et insiste sur l’implication américaine, c’est-à-dire que « la France interviendra si les Américains interviennent avec du personnel au sol ». Et, quant à la nationalité française ou américaine du commandement de l’opération, le président n’a pas de préférence. Après le fiasco politico-médiatique, deux ans plus tôt, de l’opération «Turquoise», il n’est pas question pour la France de se lancer seule dans une telle opération…

Immédiatement après ce conseil restreint, diplomates et militaires prennent langue avec les Américains. [...] Les Français s’aperçoivent vite que les Américains, malgré quelques bonnes paroles, jouent déjà une autre partition. Si le général George A. Joulwan promet de mettre à disposition des C5 Galaxy pour projeter, si nécessaire, matériels et hommes vers le Kivu, les interlocuteurs des Français refusent d’engager leurs troupes sur le terrain.

Paris et Washington ont déjà commencé une partie de poker menteur. Alors que, sur le terrain, les acteurs rwandais, ougandais et américains ont parfaitement conscience de mener un combat indirect contre Paris, les contacts entre diplomates et militaires à Washington, Paris ou Stuttgart se déroulent entre gens de bonne compagnie.

[...] Le Monde du 8 novembre 1996 résume ainsi la situation : « La France a du mal à convaincre l’ONU de l’urgence d’une intervention au Zaïre ». Elle a du mal parce que Washington et ses alliés africains ne veulent pas que la France revienne dans la région et contrarie leurs plans, mais Paris veut croire qu’il a encore la main.

Pour ne pas s’opposer frontalement à la France, Washington monte alors une opération astucieuse destinée à enterrer le projet sans pour autant se mettre à dos l’opinion publique : elle consiste à demander au Canada de constituer cette force, d’en réunir les éléments et d’en déterminer les règles… Commence alors une grande agitation qui n’est qu’un leurre.

Politiques et militaires français n’ont pas compris tout de suite que l’opération lancée par le Premier ministre canadien Jean Chrétien à la demande des Américains ne vise qu’à enterrer le projet de Chirac et à laisser les mains libres aux Américains, ainsi qu’à leurs marionnettes rwandaises et ougandaises dans la région des Grands Lacs.

Pendant quelques jours, l’état-major croit à l’acceptation d’un déploiement d’une force franco-britannique sous commandement canadien dans la région sud du Kivu. A preuve, une mission de reconnaissance effectuée par des militaires britanniques, sous le commandement du brigadier général Thomson (Royal Marines), avec trois officiers français, dirigés par le colonel Philippe Tracqui, qui est le numéro 2 du Centre opérationnel de l’armée de terre (Coat).

Dès le début, Tracqui et ses deux compagnons ont compris que quelque chose ne collait pas. [...] Le rapport de Tracqui, daté du 21 novembre, lève les dernières interrogations sur la place désormais accordée à la France dans les Grands Lacs et sur les manoeuvres américaines. «Les Américains sont tout à fait opposés à une action militaire au Sud-Kivu», écrit Tracqui. [...]

Thomson a donné à Tracqui un mémorandum du général Smith, rédigé le 16 novembre à Entebbe, qui dévoile la position américaine. « Depuis vingt-quatre heures, la situation s’est arrangée, tout va bien à Goma, et la nature des besoins humanitaires s’en trouve changée. Bien qu’il ne soit pas encore possible d’apprécier exactement le nombre total des réfugiés qui vont rentrer ou ceux qui auraient l’intention de le faire dans les prochains jours, il est clair qu’il n’existe plus en ce moment de crise humanitaire justifiant une action militaire d’urgence », écrit le général américain qui ne réclame donc aucun moyen supplémentaire.

[...] Le soir de ce 16 novembre 1996, à Entebbe, le général américain Smith dirige une réunion de planification à laquelle participe le lieutenant-colonel Pouly, de la Direction du renseignement militaire française. Pouly [...] sait que la situation décrite par l’Américain est fausse. Il ose prendre la parole après le général américain et lui fait remarquer que son appréciation de la situation ne fait aucun cas des 700.000 réfugiés et 300.000 déplacés du Sud-Kivu.

Le numéro 2 du Coat rapporte toutes les informations fournies par Pouly, le meilleur spécialiste militaire français de la région des Grands Lacs. Pouly est convaincu que « les Américains présents dans la région des Grands Lacs, qu’il s’agisse des diplomates de Kigali ou des militaires isolés à Entebbe, ne souhaitent aucune présence dans la région ».

Il a noté « l’existence à Kigali d’une importante mission militaire de coopération américaine qui a compté jusqu’à 50 personnels. Elle s’occupe de la formation militaire de l’APR [l'Armée patriotique rwandaise], fait de l’instruction de déminage, de la formation à l’action psychologique avec des spécialistes appartenant au 4e bataillon de Fort Bragg, notamment pour ce qui concerne les opérations de propagande liée à l’organisation des retours ». L’espion français a appris que « les équipes psyops américaines, chargées des opérations psychologiques, c’est-à-dire d’influencer l’opinion, sont en place et opèrent à partir de Kigali, depuis trois mois ».

L’initiative de la France pour venir en aide aux réfugiés rwandais a été brisée dans l’oeuf, au grand soulagement des Etats-Unis, du Rwanda et de l’Ouganda.

Décrédibilisée par l’action de tous les psyops rwandais et américains relayés par les porte-voix occidentaux du Front patriotique rwandais, le parti du président Kagamé, et par la plupart des médias, y compris par de nombreuses bonnes âmes françaises, la France n’a rien pu faire pour stopper les massacres de masse organisés de Hutus. Les massacres vont donc pouvoir se poursuivre, après l’enterrement sans fleurs ni couronnes de la force multinationale.

Quelques notes subtilisées aux services secrets ougandais et rwandais montrent même un engagement américain et britannique beaucoup plus accentué. Les moyens qui ont été mis en oeuvre sont énormes. Un réseau ultramoderne de satellites espions (intelligence communication network), couvrant la zone de Kigali à Brazzaville pour recueillir, contrôler et neutraliser toutes les informations en langues française et locales, a bien été déployé pour le compte des Américains, des Britanniques et des Ougandais.

Pas d’objection à l’ « anéantissement »

Selon les documents ougandais et rwandais, des avions américains seront spécialement affectés à la traque des Hutus qui se cachent dans les forêts (Report 678 ref 567/JL/RW/UG) : « Il a été conclu que les forces aériennes américaines enverront 3 P-3 Orion Propeller Planes à Entebbe. Ils opéreront pendant la journée d’Entebbe au Zaïre, à la recherche des Hutus qui se cachent dans les forêts. Les avions seront équipés de trois équipements [il s'agit en réalité de trois spécialistes chargés de contrôler une cinquantaine d'ordinateurs] destinés à traquer les mouvements des gens sur le terrain ».

Concoctés par Paul Kagamé, les plans d’attaque et de démantèlement des camps de réfugiés hutus dans l’ex-Zaïre sont présentés aux Américains pour approbation, comme le montre une note (Plan 67 ref 67/JL/RW/ZR) : « Les plans visant à attaquer les Hutus dans l’est du Zaïre ont été finalisés. Octobre et novembre 1996 sont les meilleurs mois pour l’opération. L’ONU sera engagée dans le processus de fournir les prochaines livraisons de vivres et nous saboterons ce processus ».

Une réunion entre services ougandais et rwandais (Crisis 80/L ref 78/RW. Doc) définit le modus operandi d’une action dans laquelle 30 soldats rwandais vont monter une attaque déguisés en miliciens hutus : « Il y a besoin de liquider les Hutus Interahamwe [miliciens impliqués dans le génocide de 1994] dans l’est du Zaïre. Nous avons pénétré les camps de réfugiés de Katale et Kahindo. Nous allons aider le Rwanda à exécuter l’opération afin de forcer l’ONU à fermer les deux camps. Opération : 30 soldats de l’APR vont déclencher une attaque contre les autochtones zaïrois en se faisant passer pour Interahamwe. On procédera à la destruction de leurs propriétés. Une attaque similaire avec armes à feu sera mise en oeuvre aux heures de nuit au Rwanda. Le gouvernement du Rwanda devra alors se plaindre auprès de l’ONU. Si l’ONU est lente à réagir, une opération sans annonce préalable se perpétrera alors et anéantira toutes les milices hutues se trouvant dans ces camps. L’opération d’anéantissement est approuvée sans aucune objection ».

Les dates d’un conflit

1994, premier génocide.

Le 6 avril, l’assassinat du président du Rwanda, Juvénal Habyarimana, met le feu aux poudres. Déclenchement du génocide contre la minorité tutsie et les Hutus modérés (800.000 morts). Venu de l’Ouganda, le Front patriotique rwandais (FPR) de Paul Kagamé (Tutsi) conquiert le pays et le pouvoir. Devant l’échec de la communauté internationale, la France déclenche l’opération « Turquoise ». Des centaines de milliers de Hutus – dont certains responsables du génocide – fuient le pays vers le Zaïre, où ils s’entassent dans des camps.

1996-1997, second génocide.

La guerre se déplace dans l’est du Zaïre. Avec le soutien du Rwanda et de l’Ouganda, des Zaïrois menés par Laurent-Désiré Kabila renversent le président Mobutu. Le Zaïre devient la République démocratique du Congo (RDC). Des massacres de grande ampleur – le second génocide aujourd’hui évoqué – sont commis à l’encontre des réfugiés hutus. Les Américains empêchent, à deux reprises, une intervention française pour y mettre fin. La guerre va se poursuivre en RDC jusqu’en 2002. Elle aurait fait plusieurs millions de morts.

Lire aussi : « Noires fureurs, blancs menteurs : Rwanda 1990-1994 »

Tout sur la Chine

vendredi, 18 février 2011

Quelques réflexions suit aux changements politiques survenus en Tunisie

Quelques réflexions suite aux changements politiques survenus en Tunisie

Alors que nos médias évoquent abondamment la question des changements politiques survenus en Tunisie, tout en n’en disant rien sur le fond, restant dans le seul visible, il est nécessaire de donner quelques éléments afin de mieux juger de cette fin de pouvoir de Zine El Abidine Ben Ali (1) et de la fin de son régime policier (2) - policier et non militaire, est-il important de le souligner.

Zine El Abidine Ben Ali en majesté...
1 – L’attitude des autorités françaises ou, le degré zéro de la politique
Le moins que l’on puisse dire c’est qu’il y a eu absence totale de coordination dans le discours officiel français sur cette question tunisienne. Ce manque de cohérence inqualifiable conduit à la confusion et à une démonstration de faiblesse patente de la diplomatie et de la position française en général. C’est à se demander si nos dirigeants ont les éléments pour connaître ce qui se passe en Tunisie (ou plutôt s'ils savent qu'il existe  des "outils" spécialisés pour ce faire), s’ils sont vraiment au fait des développements politiques qui s’y passent. Cette déficience est grave puisqu’elle démontre le manque d’éléments d’appréciation, d'information et donc d’analyse au plus haut niveau de l’Etat français. Ceci est un comble alors qu’il s’agit d’un pays qui se situe à moins de deux heures d’avion de la France et qui est un ancien protectorat Français (3).

Ah, que les temps peuvent (vite) changer...
Aucune cohérence enfin car l’on a eu tout d’abord un soutien au pouvoir de Ben Ali. Dominique Strauss-Kahn,  socialiste, patron du FMI, déclarait en 18 novembre 2008, que la Tunisie était un « exemple à suivre », que c’était « un modèle économique » ; Bruno Lemaire, Ministre du gouvernement Fillon, déclarant sur Canal+ « le président Ben Ali est quelqu’un qui est souvent mal jugé mais il a fait beaucoup de choses » et plus récemment Mme Alliot-Marie, Ministre de l’Intérieur, déclarant à l’Assemblée Nationale « nous proposons que le savoir-faire de nos forces de sécurité, qui est reconnu dans le monde entier, permette de régler des situations sécuritaires de ce type », etc. Nous avons eu par la suite, assez tardivement, un discours sur la prise en compte de ce changement ; et enfin, une fois le coche loupé, un rejet clair du pouvoir incarné par le dit Ben Ali (propos de M. Baroin, de Mme Lagarde, etc.), ceci allant même jusqu’à des positions lamentables de bassesses (4) - tel le coup de pied de l’âme au Lion mort - avec un refus ostentatoire, médiatique, de recevoir un Ben Ali en fuite sur le sol français, et des propositions de gel des avoirs de Ben Ali et de sa famille en France.
2 – Les communistes tunisiens ou, le retour des refoulés
Les communistes tunisiens maltraités par Ben Ali sont, pour beaucoup, réfugiés en France ; ils vont retourner dans leur pays suite à l’annonce d’élections « démocratiques ». Rien n’est dit dans nos médias sur l’action des communistes dans cette révolte dite « populaire » à Tunis et dans d’autres villes du pays. Autre question : le Parti communiste des ouvriers de Tunisie (clandestin) va-t-il être légalement autorisé ? Que va-t-il devenir de la « Coalition du 18 octobre (5) », regroupement tout azimut anti-Ben Ali, qui réunissait Communistes et islamistes ? De quels soutiens bénéficie Hamma Hammami localement et internationalement ? se présentera-t-il aux élections ? Que va-t-il advenir de la « Coalition démocratique et progressiste » (6), pendant à la « Coalition du 18 Octobre », regroupant gauchistes et communistes hostiles à toute alliance avec les islamistes ? Ces deux coalitions vont-elles s’affronter ?

La peste...
3 – Les islamistes tunisiens ou, l’Islam mondialisé
A l’instar des autres pays, la Tunisie n’échappe pas à la mondialisation et à son corolaire :  l’Islam fondamentaliste (7). Tout comme les communistes, les islamistes étaient pourchassés et enfermés par Ben Ali. Il y a des islamistes « démocrates » - de style PJD marocain ou AKP turc, avec El Nadha (8) - et des radicaux. Quoiqu’il en soit, ces islamistes existent bel et bien, leurs idées sont diffusées dans toute la société tunisienne ; on se souvient de l’attentat contre la synagogue El Ghriba (Djerba) le 11 avril 2002. Que représentent-ils dans la Tunisie d’aujourd’hui ? Ont-ils été actifs dans les émeutes ? Les islamistes enfermés dans les geôles par Ben Ali, (plusieurs centaines) vont-ils être libérés par le nouveau pouvoir en place ? Quoi qu’il en soit, ils ne vont pas rester les bras croisés et ils vont certainement  s’engouffrer dans « la brèche démocratique » pour certains, comme ils l’ont fait systématiquement dans d’autres pays et agir au grand jour pour diffuser encore davantage leurs idées. Rached Ghannouchi (9), chef d’El Nadha, âgé de 69 ans, voudra prendre sa revanche politique. Quant aux radicaux, ils ne seront pas inactifs non plus, c’est sûr. Que va-t-il advenir de l’alliance objective avec les communistes ? Vont-ils désormais s’affronter maintenant que Ben Ali est parti, car c’est un peu l’alliance de la carpe et du lapin que cette « Coalition du 18 octobre », entre communistes et islamistes ?

...le choléra...
4 – Les Etats-Unis et la révolution tunisienne ou, comment passer de la couleur aux plantes…
On a parlé de révolte « populaire », de « peuple dans la rue », etc. mais ce dont on ne parle pas, c’est le rôle de l’armée nationale tunisienne d'une part, et des liens étroits que celle-ci entretient avec les Etats-Unis, d'autre part ; liens qui se sont noués de manière intime des cinq dernières années, parallèlement au fait que les Etats-Unis sont un des premiers pourvoyeurs de l’armée nationale tunisienne. Cette armée est l’élément clef (à l’opposé de la Police, trop compromise pour une grande part avec le pouvoir du dirigeant déchu Ben Ali) dans la stabilité du pouvoir et la continuité de celui-ci dans l’après Ben Ali. Comme le dit l’Amiral Lanxade (10), « le Chef d'état-major de l'armée de terre (le Général Rachid Ammar) a démissionné en refusant de faire tirer l'armée ; c'est probablement lui qui a conseillé à Ben Ali de s'en aller ». L’armée tunisienne est donc appelée à avoir un rôle important et une influence certaine dans le nouveau pouvoir qui va s’installer à Tunis.


...ou le cancer ?
Il est fort à parier que les Etats-Unis ne sont pas étrangers à ce qui s’est passé en Tunisie. Avons-nous affaire à une réplique maghrébine des « révolutions colorées » ? Est-ce du « Jasmin de synthèse » ? Reste donc à savoir la dose d’implication des Etats-Unis et leur degré d’intimité avec les militaires pour préjuger du réel avenir politique en Tunisie.


5 – Les journalistes français face à l’événement ou, quand l’écran fait écran...
Comme pour la chute du Shah d’Iran en 1979, les journalistes sont allés très "en avant" dans l’accompagnement de cette chute du régime tunisien, sans une seule seconde prendre un peu de recul, sans penser aux conséquences politiques à venir, sans présenter l’éventail des possibles ; bref, sans penser ni analyser la situation, ni donner les éléments pour juger de ce qui s’y passe. Pour ne pas changer, les journalistes des Mass Médias français, avancent tête dans le guidon, sans se poser les vraies questions. Par exemple : cette « révolution » dite « du jasmin » (11) est-elle vraiment spontanée ? qui sont les vraies personnes ou les groupes d’intérêts derrière les événements ? y a-t-il des soutiens étrangers ? et lesquels ? quel est le rôle de la diaspora tunisienne dans ce changement ? va-t-on passer d’un régime policier à un régime militaire ? que représente l’opposition - islamiste, communiste, et autres (12) ? qui a plus de chances d’arriver et de tenir le pouvoir ? Peut-il y avoir contamination à d’autres pays suite à ce renversement ? Que dire de la situation algérienne qui souffre des mêmes symptômes ? Et que dire de l’Egypte (autrement plus dangereuse si elle basculait) ? Que pourrait-être la réaction des pays européens face à ces changements ? etc.
Le moins que l’on puisse dire, c’est que 2011 est bien parti. La tectonique géopolitique est active, les régimes changent, d’autres vont tomber, l’avenir est-il au hasard (13) ?
Notes :
(1) en place depuis novembre 1987 après la destitution de l’ex-chef de l’Etat Habib Bourguiba.
(2) Régime policier ET familial (clanique) faut-il le rappeler, avec les familles Ben Ali et Trabelsi.
(3) La Tunisie a acquis son indépendance le 20 mars 1956, en pleine guerre d’Algérie.
(4) On ne se conduit pas ainsi avec quelqu’un que l’on a soutenu jusqu’à la veille des émeutes. Cette attitude est un manque à la parole de la France, à sa probité et à sa crédibilité.
(5) Front démocratique, pour les droits et les libertés du 18 Octobre 2005, regroupant, en dehors des communistes et des islamistes, Néjib Chebbi (Parti démocratique progressiste, PDP), Mustapha Ben Jaafar (Forum démocratique pour le travail et les libertés, FDTL) et d’autres personnes/personnalités.
(6) regroupe Ettajdid (Renouveau, ancien Parti communiste tunisien), deux groupuscules de gauche non reconnus : le Parti du travail patriotique et démocratique (PTPD) et les Communistes démocrates (CD), ainsi que des intellectuels indépendants, comme l'économiste Mahmoud Ben Romdhane, ancien président de la section tunisienne d'Amnesty International.
(7) Actif depuis les années 70.
(8) Connu aussi sous le nom d’Ennahdha.
(9) exilé à Londres depuis le début des années 90.
(10) ex-chef d'Etat-major français et ex-ambassadeur de France en Tunisie.
(11) Un peu comme ces révolutions colorées survenues dans les ex-républiques soviétiques ; « spontanées » elles aussi, mais néanmoins financées par Georges Soros avec l’appui des Etats-Unis. A quand une révolution "Cadamome" en Egypte ou "Thé à la menthe" en Algérie ?
(12) Telle celle incarnée par Moncef Ben Mohamed Bedoui-Marzouki.
(13) Cf. Jacques Brel, Aux Marquises : « (…) le rire est dans le cœur, le mot dans le regard, le cœur est voyageur, l’avenir est au hasard (…)».


Crédit photos :
http://fr.academic.ru/pictures/frwiki/84/Tunisie_President_Ben_Ali.jpg
http://www.alterinfo.net/les-soutiens-du-boucher-de-Tunis-Ben-Ali-DSK-Sarko-Alliot-Marie-Frederic-Mitterand-etc_a53741.html

mercredi, 16 février 2011

"Egypte" zorgt voor Amerikaans-Saoedische ruzie

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"Egypte" zorgt voor Amerikaans-Saoedische ruzie

       
WASHINGTON 10/02 (DPA/BELGA) = De crisis in Egypte heeft volgens de Britse
krant The Times van donderdag voor spanningen gezorgd tussen de
Verenigde Staten en hun Saoedische bondgenoten. Koning Abdullah van
Saoedi-Arabië zou president Barack Obama in een telefoongesprek er
uitdrukkelijk voor gewaarschuwd, een prompte regimewissel in Egypte te
eisen. Volgens de krant, die diplomaten in Riyad aanhaalt, vond het
gesprek in een verhitte stemming plaats. 

Het gesprek dateert van enkele dagen na het begin van de volksopstand.
Abdullah dreigde ermee, zich achter de Egyptische dictator te
scharen. De Saoedische koning waarschuwde Obama, Moebarak niet te
vernederen en hem een eervolle exit aan te bieden. 

Ook de Amerikaanse dreiging, de jaarlijkse (militaire) hulp van
anderhalf miljard dollar aan Egypte bij gebrek aan "democratische
hervormingen" in te houden, lokte kritiek van de Saoedische vorst uit.
Mocht Washington overgaan tot financiëlec sancties, dan zou Riyad met
het geld over de brug komen, waarschuwde Abdullah. 

De door de krant aangehaalde diplomaten hebben het over de
ernstigste beuk tussen beide landen sinds de oliecrisis van begin de jaren
zeventig. Het regime van Abdullah wordt, net als dat van Moebarak,
vaak bestempeld als "gematigd" omdat de dictaturen een pro-Westerse
houding hebben. MAE/

Ägypten: Warum Unterstützer der Demokratiebewegung für Regen in China beten müssen

Ägypten : Warum Unterstützer der Demokratiebewegung für Regen in China beten müssen

Udo Ulfkotte

 

Auch Revolutionäre müssen essen. Und völlig unabhängig vom Ausgang der politischen Entwicklung in Ägypten braut sich über dem Land etwas zusammen, was ausländische Beobachter in den Revolutionswirren bislang irgendwie verdrängt haben: Ägypten ist der größte Weizenimporteur der Welt. Und China, größter Weizenproduzent der Welt, kämpft mit einer gewaltigen Dürre und wird in diesem Jahr riesige Mengen Weizen importieren müssen. Damit wird China den Weltmarktpreis für Weizen steil nach oben treiben – wenn es in China nicht bald regnet. Weizenbrot ist in Ägypten allerdings das wichtigste Grundnahrungsmittel. Und der Brotpreis ist in Ägypten (wie in ganz Nordafrika) ein politischer Preis. Steigt er, dann steigt auch die Wut im Volk. Und er wird mit dem ausbleibenden Regen in China stark steigen – völlig unabhängig davon, wer in Kairo in den kommenden Monaten regiert. Die Folgen sind absehbar und passen wohl kaum in das verbreitete optimistische Bild von den Folgen der ägyptischen Revolution.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/udo...

mardi, 15 février 2011

Wie is er bang van de Moslimbroederschap?

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Wie is er bang van de Moslimbroederschap?
Ex: http://www.demorgen.be/dm/nl/2461/De-Gedachte/article/det...

Het Westen heeft de Moslimbroederschap in het verleden meermaals en voor diverse doeleinden gebruikt. Lucas Catherine helpt westers geheugenverlies voorkomen. Catherine is auteur en kenner van de Arabische wereld. 

Wat de revoltes in Tunesië en Egypte duidelijk hebben gemaakt is dat Arabieren meer geïnteresseerd zijn in hurryah (vrijheid) dan in sharia. Daarmee hebben ze de Europese misvatting rechtgezet dat zij geen democratie zouden willen. Wat ze Europa verwijten is juist dat wij nooit democratie in de Arabische wereld hebben geïntroduceerd. Niet tijdens de decennia van kolonisatie en ook daarna niet, toen het Westen steevast autoritaire regimes heeft gesteund. En niet alleen autoritaire machthebbers, maar ook de reactionaire oppositie.

Neem de Moslimbroederschap. Die werd in Egypte opgericht in 1928 tijdens het Britse koloniale bewind als conservatief politiek-religieuze beweging. De Britten hebben ze vanaf het begin gesteund. Hun eerste eigen moskeeën en gemeenschapshuizen mochten ze oprichten in de door het Engelse leger zwaar gecontroleerde Suezkanaalzone. En de organisatie werd gemanipuleerd tegen de liberale Wafd-partij die naar onafhankelijkheid streefde en daar in 1945 trouwens in slaagde.

Wanneer begin de jaren '50 de Vrije Officieren de macht grijpen en onder leiding van Gamal Nasser de socialistische toer opgaan, zal men weer de Moslimbroederschap manipuleren, nu tegen hem. Nasser wordt de grote boeman van het Westen wanneer hij in 1956 het Suezkanaal nationaliseert, en zeker wanneer hij in 1960 massaal Europese bedrijven in Egypte naast. Dan sneuvelen ook nog al wat Belgische belangen in Egypte. België bezat een klein aandeel in het opgeëiste Suezkanaal, en onder impuls van Leopold II had het Belgische kapitaal vooral geïnvesteerd in infrastructuur (spoorlijnen, elektriciteit) en in de katoenindustrie. De Belgen waren na de Britten en de Fransen de belangrijkste investeerders in het land. In 1960 nationaliseert Nasser dan ook twee Belgische elektriciteitscompagnies, de trammaatschappij en ettelijke katoenindustrieën, voor een totaal van zo'n 500 miljoen toenmalige dollar. Ook bij ons is Nasser dan een grote boeman. Je kan het natrekken in de stripverhalen van Marc Sleen: in De ijzeren kolonel dat in 1956 verscheen en in De brief aan Nasser uit 1963. Nero helpt zelfs de broederschap bij een (mislukte) aanslag op Nasser. En dat haalt Sleen direct uit de toenmalige actualiteit. Zo'n aanslag gebeurde inderdaad en weer blijkt hoe de broederschap de facto de belangen van het Westen dient.

Nadat Egypte een westerse koers ging varen, eerst onder Anwar al Sadat, daarna onder generaal Moebarak, zal de Moslimbroederschap zich eerst gaan aanschurken tegen de macht. Ook al zijn ze officieel verboden, vanaf 1984 nemen ze op individuele basis deel aan de verkiezingen en in de meest recente, die van 2005, behalen ze 88 zetels, dat is 20 procent van de stemmen. Vergelijk dat met de Wafdpartij die dan slechts zes zetels veroverde. Dat goede resultaat komt door de politiek die ze aan de basis voeren. Onder het islamitische label van zakat en sadaqa - zeg maar liefdadigheid - construeren ze onder de armste lagen van de bevolking een sociaal vangnet, met voedselbedeling, gezondheidszorg, enzovoort. Ze hebben een zuil uitgebouwd. Vergelijk het met de christelijke zuil hier, ook ontstaan uit 'liefdadigheid' en als tegengewicht voor de 'gevaarlijke' socialistische beweging. Daar waar corruptie en armoede enorme vormen aannemen, zorgen zij voor een solidaristisch alternatief. Zij kunnen dat, omdat ze, in tegenstelling tot de progressieve bewegingen, financiële steun krijgen uit het buitenland. Neen, niet uit Iran, maar van de grote westerse bondgenoot, Saoedi-Arabië. De arme Egyptenaren, en dat is de meerderheid van de bevolking, zijn dan ook niet bang voor de Moslimbroederschap. Als je naar hun sociaal programma kijkt, dan zijn zij allesbehalve 'gevaarlijk'. Een gemiddelde Vlaming zou, als je naar zijn sociaal programma kijkt, stukken meer schrik moeten hebben van Bart De Wever, dan een Egyptenaar van de Moslimbroeders.

Als er min of meer eerlijke verkiezingen komen in Egypte, vrees ik dan ook dat de broederschap een groter stemmenpercentage zal halen dan de N-VA hier. In beide gevallen voor mij geen reden om te juichen. Maar voor Egypte kunnen we rustig stellen dat het aan onze domme westerse bemoeienissen ligt. Eigen schuld, dikke bult.

Rivoluzione d'Egitto - Distruzione creativa per un "Grande Medio Oriente"?

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Rivoluzione d’Egitto – Distruzione creativa per un “Grande Medio Oriente”?

 

Fonte: http://globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=23131 [1]

Velocemente sulla scia del cambiamento di regime in Tunisia, s’è alzato il movimento di protesta popolare lanciato il 25 gennaio contro l’ordine radicato di Hosni Mubarak in Egitto. Contrariamente all’impressione coltivata con cura secondo cui l’Amministrazione Obama sta cercando di mantenere l’attuale regime di Mubarak, Washington, infatti, sta orchestrando i cambiamenti di regime egiziano e regionali, dalla Siria allo Yemen, alla Giordania e ben oltre, in un processo cui alcuni si riferiscono come “distruzione creativa”.

Il modello per tale cambiamento di regime sotto copertura è stata sviluppata dal Pentagono, dalle agenzie di intelligence degli Stati Uniti e dai vari think-tank come la RAND Corporation. nel corso di decenni, a partire dalla destabilizzazione del maggio 1968 della Presidenza de Gaulle in Francia. Questa è la prima volta dal cambiamento di regime sostenuto dagli USA in Europa orientale, circa due decenni fa, che Washington aveva avviato con operazioni simultanee in molti paesi di una regione. Si tratta di una strategia che nasce dalla disperazione e certo non è senza rischi significativi per il Pentagono e per l’agenda a lungo termine di Wall Street. Cosa ne risulterà per i popoli della regione e per il mondo, non è ancora chiaro.

Eppure, mentre il risultato finale della sfida delle proteste di piazza al Cairo e in tutto l’Egitto e il mondo islamico non è chiaro, le grandi linee di una strategia occulta degli Stati Uniti sono già chiare.

Nessuno può mettere in discussione le motivare genuine rimostranze di milioni di persone scese per le strade, a rischiare la vita. Nessuno può difendere le atrocità del regime di Mubarak e la tortura e la repressione del dissenso. Nessuno può contestare l’aumento esplosivo dei prezzi alimentari, ad opera degli speculatori di materie prime di Chicago e Wall Street, e la conversione dei terreni agricoli americani per la folle coltivazione del mais per l’etanolo combustibile, che ha fatto schizzare i prezzi del grano. L’Egitto è il più grande importatore di grano al mondo, in gran parte dagli Stati Uniti. I futures del grano di Chicago sono aumentati di uno sbalorditivo 74% tra giugno e novembre 2010, portando ad un inflazione dei prezzi alimentari egiziani di circa il 30%, nonostante i sussidi governativi.

Ciò che è largamente ignorato da CNN, BBC e altri media occidentali, nella loro copertura degli eventi in Egitto, è il fatto che tutto qualsiasi siano i suoi eccessi interni, l’egiziano Mubarak costituisce un ostacolo rilevante all’interno della regione, alla maggiore agenda degli Stati Uniti.

Dire dei rapporti tra Obama e Mubarak sono stati congelati fin dall’inizio non è esagerato. Mubarak è stato fermamente contrario alle politiche di Obama sull’Iran e su come trattare il suo programma nucleare, sulle politiche di Obama verso gli Stati del Golfo Persico, la Siria e il Libano, nonché verso i palestinesi. [1] E’ stato una spina formidabile ai grandi ordini del giorno di Washington per l’intera regione, il progetto di Washington del Grande Medio Oriente, recentemente riproposta col meno inquietante titolo di “Nuovo Medio Oriente”.

Reale come i fattori che stanno spingendo milioni in piazza in tutto il Nord Africa e il Medio Oriente, ciò che non può essere ignorato è il fatto che Washington sta decidendo i tempi e come li vede, cercando di plasmare il risultato finale in un cambiamento di regime globale destabilizzazione tutto il mondo islamico. Il giorno delle straordinariamente ben coordinate manifestazioni popolari che chiedevano a Mubarak le dimissioni, i membri chiave del comando militare egiziano, incluso il capo di Stato Maggiore Gen. Sami Hafez Enan, erano tutti a Washington in qualità di ospiti del Pentagono. Neutralizzando opportunamente la forza decisiva dell’esercito nel fermare la protesta anti-Mubarak, crescente nei primi giorni critici [2].

La strategia era in vari dossier del Dipartimento di Stato e del Pentagono da almeno un decennio o più. Dopo che George W. Bush ha dichiarato la Guerra al Terrore, nel 2001, ciò è stato chiamato programma per il Grande Medio Oriente. Oggi è noto come il meno minaccioso titolo di progetto per il “Nuovo Medio Oriente“. Si tratta di una strategia per spezzare gli Stati della regione dal Marocco all’Afghanistan, la regione definita dall’amico di David Rockefeller, Samuel Huntington nel suo infame saggio Lo Scontro di Civiltà apparso su Foreign Affairs.

Egitto in ascesa?

Lo scenario attuale per l’Egitto del Pentagono si legge come uno spettacolo Hollywoodiano di Cecil B. DeMille, solo che questo ha un cast di milioni di giovani ben addestrati fanatici di Twitter, reti di operatori della Fratellanza musulmana, che operano con militari addestrati dagli USA. Nel ruolo di protagonista della nuova produzione, al momento, non è altro che un premio Nobel della Pace che convenientemente appare tirare tutti i fili dell’opposizione all’ancien régime, in quello che appare come una transizione senza problemi in un Egitto di nuovo sottoposto a un auto-proclamata rivoluzione liberal-democratica.

Alcuni retroscena sugli attori sul terreno sono utili, prima di guardare a ciò che sul piano strategico a lungo termine di Washington, potrebbe accadere al mondo islamico dal Nord Africa al Golfo Persico e, infine, alle popolazioni islamiche dell’Asia centrale, ai confini di Cina e Russia.

Le ‘rivoluzioni‘ soft di Washington

Le proteste che hanno portato al brusco licenziamento dell’intero governo egiziano da parte del Presidente Mubarak, sulla scia del panico per la fuga dalla Tunisia di Ben Ali, verso un esilio saudita, non sono affatto “spontanee“, come la Casa Bianca di Obama, il Dipartimento di Stato della Clinton, o CNN, BBC e altri media importanti dell’Occidente pretendono siano.

Sono stati organizzati nello stile high-tech elettronico ucraino, con grandi reti di giovani collegato tramite internet a Mohammed ElBaradei e ai torbidi e clandestini Fratelli Musulmani, i cui legami con servizi segreti e alla massoneria britannici e statunitensi, sono ampiamente indicati. [3]

A questo punto il movimento anti-Mubarak sembra tutt’altro che una minaccia per l’influenza statunitense nella regione, anzi. Ha tutte le impronte di un altro cambio di regime appoggiato dagli USA, sul modello delle rivoluzioni a colori del 2003-2004 in Georgia e in Ucraina, e della fallita Rivoluzione verde contro l’Iran di Ahmadinejad, nel 2009.

La richiesta di uno sciopero generale egiziano e del giorno della rabbia del 25 gennaio, che ha scatenato le proteste di massa che esigono le dimissioni di Mubarak, sono state lanciate da una organizzazione basata su Facebook e che si fa chiamare Movimento 6 aprile. Le proteste erano così consistenti e ben organizzate che hanno costretto Mubarak a chiedere al suo governo di dimettersi e di nominare un nuovo vice-presidente, il generale Omar Suleiman, ex ministro dell’Intelligence.

Il 6 aprile è guidato da un tale Ahmed Maher Ibrahim, un ingegnere civile di 29 anni, che ha configurato il sito di Facebook per sostenere l’appello ai lavoratori per lo sciopero del 6 aprile 2008.

Secondo il New York Times, dal 2009 circa 800.000 Egiziani, la maggior parte giovani, erano già allora membri di Facebook o Twitter. In un’intervista con la Carnegie Endowment di Washington, il capo del movimento 6 aprile Maher, ha dichiarato: “Essendo il primo movimento giovanile in Egitto ad avere l’uso delle modalità di comunicazione basate su Internet come Facebook e Twitter, ci proponiamo di promuovere la democrazia, incoraggiando il coinvolgimento del pubblico nel processo politico.”[4]

Maher ha inoltre annunciato che il suo Movimento 6 aprile sostiene l’ex capo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) delle Nazioni Unite, capo e dichiarato candidato presidenziale egiziano, ElBaradei assieme alla coalizione di ElBaradei, l’Associazione Nazionale per il Cambiamento (NAC). Il NAC include tra gli altri George Ishak, leader del Movimento Kefaya, e Mohamed Saad El-Katatni, presidente del controverso blocco parlamentare Ikhwan o Fratelli Musulmani [5].

Oggi Kefaya è al centro degli attuali avvenimenti egiziani. Non lontano, sullo sfondo vi sono i più discreti Fratelli Musulmani.

ElBaradei, a questo punto viene proiettato come figura centrale in un futuro cambiamento democratico parlamentare egiziano. Curiosamente, anche se egli non ha vissuto in Egitto negli ultimi 30 anni, ha avuto l’appoggio di ogni parte immaginabile dello spettro politico egiziano che va dai comunisti ai Fratelli Musulmani, da Kefaya ai giovani attivisti del 6 aprile.[6] A giudicare dal comportamento calmo che presenta ElBaradei in questi giorni verso gli intervistatori CNN, anche lui ha probabilmente il sostegno dei principali generali egiziani contrari al dominio di Mubarak per qualche motivo, così come di alcune persone molto influenti a Washington.

Kefaya è al centro delle mobilitazioni delle manifestazioni di protesta egiziane che supportano la candidatura di ElBaradei. Kefaya di traduce “basta!

Curiosamente, i progettisti della National Endowment for Democracy (NED) di Washington [7] e delle ONG connesse alla rivoluzione colorate, sono apparentemente prive di creatività riguardo degli accattivanti nuovi nomi per la loro Color Revolution egiziana. Nel novembre 2003 per al loro Rivoluzione delle Rose in Georgia, le ONG finanziate avevano scelto una parola attraente, Kmara! Al fine di identificare il movimento giovanile per il cambiamento di regime. Kmara!, anche in georgiano significa “basta!”

Come Kefaya, Kmara in Georgia è stata costruita da consiglieri del NED finanziati da Washington e di altri gruppi come la mal denominata Albert Einstein Institution di Gene Sharp, che utilizza ciò che Sharp aveva una volta identificato come “la non-violenza come metodo di guerra.” [8]

Le diverse reti giovanili in Georgia come in Kefaya sono stati accuratamente addestrate come libera e decentrata rete di cellule, evitando deliberatamente una organizzazione centrale che poteva essere distrutto portando il movimento ad una battuta d’arresto. La formazione degli attivisti alle tecniche di resistenza non-violenta venne fatta in impianti sportivi, facendola apparire innocua. Gli attivisti erano stati assegnati a corsi di formazione in marketing politico, relazioni con i media, tecniche di mobilitazione e reclutamento.

Il nome formale di Kefaya è Movimento egiziano per il cambiamento. E’ stato fondata nel 2004 selezionando intellettuali egiziani presso Abu’ l-Ala Madi, leader del partito Al-Wasat, un partito creato dai Fratelli Musulmani [9]. Kefaya è stato creato come movimento di coalizione unito solo dall’appello per la fine del dominio di Mubarak.

Kefaya come parte dell’amorfo Movimento 6 aprile, ha capitalizzato subito i nuovi media sociali e la tecnologia digitale come suoi principali mezzi di mobilitazione. In particolare, i blog politici, che postano senza censure videoclip e immagini fotografiche su youtube, sono molto abilmente e professionalmente utilizzati. In un raduna già effettuato nel dicembre 2009, Kefaya aveva annunciato il sostegno alla candidatura di Mohammed ElBaradei per le elezioni egiziane del 2011 [10].

RAND e Kefaya

Non di meno un centro di riflessione della dirigenza della difesa statunitense, quale la RAND Corporation, ha condotto uno studio dettagliato su Kefaya. Lo studio su Kefaya come la RAND nota, è stato “promosso da Ufficio del Segretario della Difesa, Stati Maggiori riuniti, Comandi Operativi Unificati, Dipartimento della Marina Militare, Corpo dei Marines, organismi della difesa, e la la comunità d’intelligence della difesa“. [11]

Un gruppetto di simpatici signori e donne più democraticamente orientati difficilmente potrebbe essere trovato.

Nella loro relazione del 2008 al Pentagono, i ricercatori della RAND ha rilevato quanto segue in relazione a Kefaya dell’Egitto:

Gli Stati Uniti hanno professato un interesse a una maggiore democratizzazione nel mondo arabo, in particolare dopo gli attentati del settembre 2001 da parte di terroristi provenienti da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Libano. Questo interesse fa parte di uno sforzo per ridurre dei destabilizzanti violenza politica e terrorismo. In qualità di presidente, George W. Bush ha sottolineato in un discorso del 2003 al National Endowment for Democracy, “Finché il Medio Oriente rimane un luogo dove la libertà non fiorisce, rimarrà un luogo di stagnazione, risentimento e violenza pronta all’esportazione” (The White House, 2003). Gli Stati Uniti hanno utilizzato mezzi diversi per perseguire la democratizzazione, compreso un intervento militare che, anche se è stato lanciato per altri motivi, ha avuto l’installazione di un governo democratico come uno dei suoi obiettivi finali. Tuttavia, i movimenti di riforma indigeni sono nella posizione migliore per far avanzare la democratizzazione del proprio paese.“[12]

I ricercatori della RAND hanno speso anni per perfezionare le tecniche di cambio di regime non convenzionale sotto il nome di “brulichio“, un metodo di diffondere masse folli di gioventù collegata per via digitale e attuare forme di protesta mordi-e-fuggi, muovendosi come sciami di api [13].

Washington e la scuderia di ONG dei “diritti umani“, della “democrazia” e “non violenza” che sovrintende, negli ultimi dieci anni o più, ha sempre più fatto affidamento su sofisticati movimenti di protesta indigena locale spontanei e che si “autoalimentano“, per creare un cambiamento di regime filo-Washington e far progredire l’agenda globale della Full Spectrum Dominance del Pentagono. Così lo studio della RAND afferma, nelle sue raccomandazioni conclusive del Pentagono, che Kefaya:

Il governo degli Stati Uniti già sostiene gli sforzi di riforma attraverso organizzazioni come l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale e il United Nations Development Programme. Data la corrente opposizione popolare contraria agli Stati Uniti nella regione, il sostegno degli Stati Uniti alle iniziative di riforma è meglio effettuato attraverso organizzazioni non governative e istituzioni senza scopo di lucro.“[14]

Lo studio del 2008 della RAND era ancora più concreto sul futuro sostegno degli Stati Uniti al governo egiziano e gli altri movimenti di “riforma“:

“Il governo degli Stati Uniti dovrebbe incoraggiare le organizzazioni non governative offrendo una formazione ai riformatori, tra cui una guida per la costruzione della coalizione e come trattare le differenze interne nel perseguimento delle riforme democratiche. Istituzioni accademiche (o anche organizzazioni non governative associate a partiti politici statunitensi, come l’International Republican Institute o il National Democratic Institute for International Affairs) potrebbero effettuare tale formazione, equipaggiando i leader delle riforme, nel conciliare le loro divergenze in modo pacifico e democratico.

In quarto luogo, gli Stati Uniti dovrebbero aiutare i riformatori ad ottenere e utilizzare le tecnologie dell’informazione, magari offrendo incentivi alle società statunitensi per investire nelle infrastrutture delle comunicazioni e nelle tecnologie dell’informazione regionali. aziende tecnologiche dell’informazione USA potrebbero anche contribuire a garantire che i siti dei riformatori possano rimanere in funzionamento, e potrebbero investire in tecnologie come l’anonymizer, che potrebbero offrire qualche riparo dal controllo del governo. Questo potrebbe essere raggiunto anche con l’impiego di tecnologie di sicurezza per impedire ai regimi di sabotare i siti web dei riformatori.“[15]

Come la loro monografia su Kefaya afferma, è stata preparata nel 2008 dalla “RAND National Security Research – Divisione per di iniziativa strategica alternativa”, patrocinata dal Rapid Reaction Technology Office presso l’Ufficio del Sottosegretario alla Difesa per l’acquisizione, la tecnologia e la logistica.

La iniziativa strategica alternativa, proprio per sottolineare il punto, comprende “la ricerca su un uso creativo dei media, della radicalizzazione dei giovani, dell’impegno civile per arginare la violenza settaria, la fornitura di servizi sociali per mobilitare settori danneggiati delle popolazioni indigene e, tema di questo volume, i movimenti alternativi.”[16]

Nel maggio del 2009 poco prima del viaggio al Cairo di Obama per incontrare Mubarak, la segretaria di Stato statunitense Hillary Clinton ha ospitato una serie di giovani attivisti egiziani a Washington, sotto gli auspici della Freedom House, un’altra ONG dei “diritti umani” con sede a Washington e una lunga storia di coinvolgimento in cambi di regime sponsorizzati dagli USA, dalla Serbia alla Georgia all’Ucraina e ad altre rivoluzioni colorate. Clinton e l’assistente al Segretario di Stato per gli Affari del Vicino Oriente, Jeffrey Feltman, hanno incontrato sedici attivisti al termine di una ‘visita‘ di due mesi organizzata dal programma New Generation della Freedom House [17].

Freedom House e la ONG dei cambi di regime, finanziata dal governo di Washington, National Endowment for Democracy (NED), sono al centro delle rivolte che ora attraversano il mondo islamico. Esse si adattano al contesto geografico di ciò che George W. Bush ha proclamato, dopo il 2001, come il suo Progetto di Grande Medio Oriente per portare la “democrazia” e una riforma economica “liberale e per il libero mercato” nei paesi islamici, dall’Afghanistan al Marocco. Quando Washington parla di introdurre la “riforma liberale del libero mercato” la gente dovrebbe guardare fuori. E’ poco più di un codice per portare quelle economie sotto il giogo del sistema del dollaro, e di tutto ciò che esso comporta.

La NED di Washington fa parte di un’agenda più grande

Se facciamo un elenco dei paesi della regione che sono sottoposti a movimenti di protesta di massa dagli eventi tunisino ed egiziano, e li riportiamo su una mappa, troviamo una quasi perfetta convergenza tra i paesi oggi coinvolti nelle proteste e la mappa originale del progetto di Washington per un Grande Medio Oriente che fu per prima presentato durante la presidenza di George W. Bush, dopo il 2001.

La NED di Washington era tranquillamente impegnata nella preparazione di un ondata di destabilizzazioni dei regimi in tutto il Nord Africa e Medio Oriente, dopo l’invasione militare degli Stati Uniti, nel 2001-2003, di Afghanistan e Iraq. L’elenco dei luoghi dove la NED è attiva, è rivelatore. Il suo sito web elenca Tunisia, Egitto, Giordania, Kuwait, Libia, Siria, Yemen e Sudan e, curiosamente, Israele. Casualmente questi paesi sono quasi tutti soggetti oggi a “spontanee” insurrezioni popolari per un cambio di regime.

L’International Republican Institute e il National Democratic Institute for International Affairs citati dal documento della RAND su Kefaya sono organizzazioni affiliate alla National Endowment for Democracy, di Washington e finanziata dal Congresso USA.

La NED è l’agenzia di coordinamento di Washington per la destabilizzazione e il cambiamento dei regimi. E’ attiva dal Tibet all’Ucraina, dal Venezuela alla Tunisia, dal Marocco al Kuwait nel ridisegnare il mondo dopo il crollo dell’Unione Sovietica, in quello che George HW Bush, in un discorso del 1991 al Congresso, proclamò trionfalmente essere l’alba di un Nuovo Ordine Mondiale. [18] Mentre l’architetto e primo capo del NED, Allen Weinstein ha detto al Washington Post nel 1991 che, “molto di quello che facciamo oggi è stato fatto di nascosto 25 anni fa dalla CIA“. [19]

Il Consiglio di Amministrazione della NED comprende o ha incluso, l’ex Segretario alla Difesa e vice capo della CIA, Frank Carlucci del Carlyle Group, il generale in pensione della NATO Wesley Clark; il neo-conservatore Warhawk Zalmay Khalilzad, che fu architetto dell’invasione afghana di George W. Bush e più tardi ambasciatore in Afghanistan, nonché nell’occupato Iraq. Un altro membro del consiglio della NED, Vin Weber, ha co-presieduto una task force indipendente importante sulla politica degli Stati Uniti verso le riforme nel mondo arabo, con l’ex Segretaria di Stato statunitense Madeleine Albright, e fu uno dei membri fondatori dell’ultra-aggressivo think-tank Progetto per un Nuovo Secolo Americano con Dick Cheney e Don Rumsfeld, che auspicava un forzato cambio di regime in Iraq, già nel 1998 [20].

La NED si suppone sia una fondazione privata, non governativa, senza scopo di lucro, ma riceve uno stanziamento annuale per i suoi lavori internazionali dal Congresso degli Stati Uniti. Il National Endowment for Democracy dipende dal contribuente statunitense per il finanziamento, ma perché la NED non è un ente governativo, non è soggetta alla normale supervisione del Congresso.

Il denaro della NED è incanalato ai paesi di destinazione attraverso quattro “basi centrali“, il National Democratic Institute for International Affairs, legato al Partito Democratico, l’International Republican Institute legato al Partito Repubblicano, l’American Center for International Labor Solidarity legata alla federazione del lavoro statunitense AFL-CIO e al Dipartimento di Stato statunitense, e il Center for International Private Enterprise legato alla liberista libero Camera di Commercio statunitense.

La defunta analista politica Barbara Conry aveva osservato che, “La NED ha approfittato del suo presunto status privato per influenzare le elezioni all’estero, attività che è oltre la portata dell’AID o della USIA, e sarebbe altrimenti possibile solo attraverso una operazione segreta della CIA. Tali attività, si può anche notare, sarebbero illegali per dei gruppi esteri che operassero negli Stati Uniti.”[21]

Significativamente la NED dettaglia i suoi vari attuali progetti nei paesi islamici, tra cui oltre all’Egitto, Tunisia, Yemen, Giordania, Algeria, Marocco, Kuwait, Libano, Libia, Siria, Iran e Afghanistan. In breve, la maggior parte dei paesi che attualmente sentono gli effetti del terremoto delle proteste per una riforma radicale in tutto il Medio Oriente e il Nord Africa, è un obiettivo della NED [22].

Nel 2005 il presidente statunitense George W. Bush ha pronunciato un discorso alla NED. In un lungo discorso incoerente che equiparava il “radicalismo islamico“, con il malvagio comunismo, quale nuovo nemico, e usando un termine più volutamente morbido di “più vasto Medio Oriente” invece di Grande Medio Oriente, che aveva suscitato molto disturbo nel mondo islamico, Bush aveva dichiarato,

Il quinto elemento della nostra strategia nella guerra al terrore è quello di negare future reclute ai militanti, sostituendo l’odio e il risentimento con la democrazia e la speranza attraverso un più vasto Medio Oriente. Si tratta di un lungo e difficile progetto, ma non c’è nessuna alternativa ad esso. Il nostro futuro e il futuro di quella regione sono collegate. Se il più vasto Medio Oriente viene lasciato crescere nell’amarezza, se i paesi rimangono in miseria, mentre i radicali suscitano il risentimento di milioni, allora quella parte del mondo sarà una fonte infinita di conflitto e pericoli montanti, per la nostra generazione e per quella successiva. Se i popoli di quella regione potranno scegliere il proprio destino, e far avanzare la loro energia, con la partecipazione di uomini e donne liberi, gli estremisti saranno marginalizzati, e il flusso del radicalismo violento verso il resto del mondo sarà rallentato, e alla fine finito… Stiamo incoraggiando i nostri amici in Medio Oriente, compreso l’Egitto e l’Arabia Saudita, a prendere la strada delle riforme, per rafforzare la propria società nella lotta contro il terrorismo, rispettando i diritti e le scelte del proprio popolo. Appoggiamo i dissidenti e gli esiliati contro i regimi oppressivi, perché sappiamo che i dissidenti di oggi saranno i leader democratici di domani… “[23]

Il Progetto degli Stati Uniti per un ‘Grande Medio Oriente’

La diffusione di operazioni di cambio di regime di Washington dalla Tunisia al Sudan, dallo Yemen all’Egitto e la Siria, sono assai ben visti, nel contesto della lunga strategia del Pentagono e del Dipartimento di Stato verso l’intero mondo islamico da Kabul in Afghanistan, a Rabat in Marocco.

I rozzi lineamenti della strategia di Washington, in parte basata sulle sue riuscite operazioni di cambio regime nell’ex Patto di Varsavia, il blocco comunista dell’Europa orientale, sono state elaborate dall’ex consulente del Pentagono e neo-conservatore Richard Perle, e poi dall’assistente di Bush Douglas Feith, in un Libro bianco elaborato per l’allora nuovo regime del Likud israeliano di Benjamin Netanyahu, nel 1996.

Tale raccomandazione politica è stata intitolata Un taglio netto: Una nuova strategia per assicurare il Reame. Fu la prima che uno scritto del think-tank Washington chiedeva apertamente la rimozione di Saddam Hussein in Iraq, un atteggiamento militare aggressivo nei confronti dei palestinesi, di colpire la Siria e gli obiettivi siriani in Libano. [24] Secondo quanto riferito, il governo Netanyahu in quel momento seppellì la relazione di Perle Feith, in quanto troppo rischioso.

Con gli eventi dell’11 settembre 2001 e il ritorno a Washington degli ultrafalchi neoconservatori del gruppo di Perle, l’amministrazione Bush diede priorità assoluta alla versione allargata del piano di Feith-Perle, chiamandolo Progetto per un Grande Medio Oriente. Feith fu nominato da Bush Sottosegretario della Difesa.

Dietro la facciata delle annunciate riforme democratiche dei regimi autocratici in tutta la regione, il Grande Medio Oriente era ed è un progetto per estendere il controllo militare degli Stati Uniti e spezzare le economie stataliste in tutto l’arco degli stati dal Marocco fino ai confini della Cina e della Russia.

Nel maggio 2003, prima che le macerie del bombardamento statunitense di Baghdad fossero tolte, George W. Bush, un presidente che non sarà ricordato come un grande amico della democrazia, proclamò la politica di “diffondere la democrazia” in tutta la regione ed aveva esplicitamente sottolineato cosa ciò significava: “La creazione del Medio Oriente come area di libero scambio con gli Stati Uniti entro un decennio.” [25]

Prima del Summit dei G8 del giugno 2004 a Sea Island, Georgia, Washington aveva pubblicato un documento di lavoro, “G8-Greater Middle East Partnership“. Sotto la sezione intitolata opportunità economiche vi era un drammatico appello di Washington per “una trasformazione economica simile, in grandezza, a quella intrapresa dai paesi ex comunisti dell’Europa centrale e orientale”.

Il documento statunitense aveva detto che la chiave di ciò era il rafforzamento del settore privato come strada per la prosperità e la democrazia. E sosteneva, in modo fuorviante, che ciò sarebbe stato fatto attraverso il miracolo della microfinanza, come il documento chiariva, “solo 100 milioni di dollari all’anno per cinque anni saranno creerebbero 1.2 milioni di imprenditori (750.000 dei quali donne), uscendo dalla povertà, attraverso prestiti di 400 dollari a ciascuno.”[26] (Et Voilà, ecco il perché del nobel a Muahmmad Yunus, ideatore della microfinanza per i poveracci… NdT)

Il piano statunitense prevedeva l’acquisizione di banche regionali e finanziarie da parte delle nuove istituzioni apparentemente internazionale ma, come la Banca Mondiale e il FMI, di fatto controllate da Washington, tra cui il WTO. L’obiettivo del progetto a lungo termine di Washington, è quello di controllare completamente il petrolio, controllare completamente i flussi di entrate dal petrolio, controllare completamente le intere economie della regione, dal Marocco fino ai confini della Cina, e tutto ciò che sta in mezzo. E’ un progetto ardito quanto è disperata.

Una volta che il documento del G8 degli Stati Uniti era trapelato nel 2004, su Al-Hayat, l’opposizione ad essa si diffuse in tutta la regione, con una grande protesta per la definizione statunitense del Grande Medio Oriente. Un articolo del francese Le Monde Diplomatique di aprile 2004, aveva osservato che “oltre ai paesi arabi, si estende a Afghanistan, Iran, Pakistan, Turchia e Israele, il cui unico comune denominatore è che si trovano nella zona in cui l’ostilità verso gli Stati Uniti è più forte, in cui il fondamentalismo islamico nella sua forma anti-occidentale è più diffuso.”[27] Va notato che la NED è attiva anche all’interno di Israele, con un certo numero di programmi.

In particolare, nel 2004 vi è stata la veemente opposizione da due leader del Medio Oriente, l’egiziano Hosni Mubarak e il re dell’Arabia Saudita, che hanno costretto i fanatici ideologi dell’amministrazione Bush a mettere temporaneamente il progetto per il Grande Medio Oriente nel dimenticatoio.

Funzionerà?

In questo scritto non è chiaro quale sia il risultato cui porterà finale delle ultime teleguidate destabilizzazioni USA in tutto il mondo islamico. Non è chiaro quale sarà il risultato per Washington e i sostenitori di un Nuovo Ordine Mondiale dominato dagli USA. La loro agenda è chiaramente sia la creazione del Grande Medio Oriente sotto la presa salda degli Stati Uniti, come un maggior controllo dei futuri flussi di capitali e flussi di energia verso Cina, Russia e Unione Europea, che potrebbero portare, uno di questi giorni, all’idea di allontanarsi da questo ordine statunitense.

Essa ha enormi implicazioni potenziali per il futuro di Israele. Come un commentatore statunitense ha ammesso, “Il calcolo israeliano di oggi è che se ‘Mubarak se ne va’ (che di solito viene indicato con ‘Se gli USA permettono che Mubarak vada via’), l’Egitto andrà via. Se va via la Tunisia (stessa storia), anche il Marocco e l’Algeria andranno. La Turchia è già andata (per la quale gli israeliani devono solo incolpare se stessi). La Siria è andata (in parte perché Israele ha voluto escluderla dall’accesso all’acqua del mare di Galilea). Gaza è andata ad Hamas e l’Autorità palestinese potrebbe presto pure andarsene (con Hamas?). Lasciando Israele tra le rovine della politica del dominio militare della regione.” [28]

La strategia di Washington di “distruzione creativa“, sta chiaramente causando notti insonni non solo nel mondo islamico, ma anche a Tel Aviv, e infine da ora anche a Pechino e a Mosca e in tutta l’Asia centrale.


* F. William Engdahl è autore di Full Spectrum Dominance: Totalitarian Democracy in the New World Order. Il suo libro A Century of War: Anglo-American Oil Politics and the New World Order è stato appena ristampato in una nuova edizione. È membro del Comitato Scientifico di “Eurasia”.



Note

[1] DEBKA, Mubarak believes a US-backed Egyptian military faction plotted his ouster, February 4, 2011, www.debka.com/weekly/480/. DEBKA Debka è aperto circa i sua buoni legami con l’intelligence e le agenzie di sicurezza di Israele. Mentre i suoi scritti devono essere letti con questo in mente, alcuni rapporti che pubblica spesso inducono a interessanti ulteriori indagini.

[2] Ibid.

[3] The Center for Grassroots Oversight, 1954-1970: CIA and the Muslim Brotherhood ally to oppose Egyptian President Nasser, www.historycommons.org/context.jsp?item=western_support_for_islamic_militancy_202700&scale=0. Secondo il defunto Miles Copeland, un funzionario della CIA di stanza in Egitto durante il periodo di Nasser, la CIA si alleò con i Fratelli Musulmani che si opponevano al regime laico di Nasser, così come all’opposizione dell’ideologia nazionalista alla fratellanza pan-islamica.

[4] Jijo Jacob, What is Egypt’s April 6 Movement?, 1 Febbraio 2011, http://www.ibtimes.com/articles/107387/20110201/what-is-egypt-s-april-6-movement.htm

[5] Ibidem.

[6] Janine Zacharia, Opposition groups rally around Mohamed ElBaradei, Washington Post, 31 gennaio 2011, http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2011/01/31/AR2011013103470_2.html?sid=ST2011013003319.

[7] National Endowment for Democracy, Middle East and North Africa Program Highlights 2009, in http://www.ned.org/where-we-work/middle-east-and-northern-africa/middle-east-and-north-africa-highlights.

[8] Amitabh Pal, Gene Sharp: The Progressive Interview, The Progressive, 1 marzo 2007.

[9] Emmanuel Sivan, Why Radical Muslims Aren’t Taking over Governments, Middle East Quarterly, December 1997, pp. 3-9

[10] Carnegie Endowment, The Egyptian Movement for Change (Kifaya), http://egyptelections.carnegieendowment.org/2010/09/22/the-egyptian-movement-for-change-kifaya

[11] Nadia Oweidat, et al, The Kefaya Movement: A Case Study of a Grassroots Reform Initiative, Prepared for the Office of the Secretary of Defense, Santa Monica, Ca., RAND_778.pdf, 2008, p. iv.

[12] Ibidem.

[13] Per altre discussioni dettagliate sulle tecniche del “brulichio” della RAND: F. William Engdahl, Full Spectrum Dominance: Totalitarian Democracy in the New World Order, edition.engdahl, 2009, pp. 34-41.

[14] Nadia Oweidat et al, op. cit., p. 48.

[15] Ibid., p. 50.

[16] Ibid., p. iii.

[17] Michel Chossudovsky, The Protest Movement in Egypt: “Dictators” do not Dictate, They Obey Orders, 29 gennaio 2011, http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=22993

[18] George Herbert Walker Bush, State of the Union Address to Congress, 29 gennaio 1991. Nel discorso, Bush a un certo punto ha dichiarato con aria trionfante di celebrazione del collasso dell’Unione Sovietica, “Ciò che è in gioco è più di un paese piccolo, è una grande idea, un nuovo ordine mondiale …

[19] Allen Weinstein, quoted in David Ignatius, Openness is the Secret to Democracy , Washington Post National Weekly Edition, 30 Settembrw 1991, pp. 24-25.

[20] National Endowment for Democracy, Board of Directors, http://www.ned.org/about/board

[21] Barbara Conry, Loose Cannon: The National Endowment for Democracy , Cato Foreign Policy Briefing No. 27, 8 Novembre 1993, http://www.cato.org/pubs/fpbriefs/fpb-027.html.

[22] National Endowment for Democracy, 2009 Annual Report, Middle East and North Africa, http://www.ned.org/publications/annual-reports/2009-annual-report.

[23] George W. Bush, Speech at the National Endowment for Democracy, Washington, DC, 6 ottobre 2005, http://www.presidentialrhetoric.com/speeches/10.06.05.html.

[24] Richard Perle, Douglas Feith et al, A Clean Break: A New Strategy for Securing the Realm , 1996, Washington and Tel Aviv, The Institute for Advanced Strategic and Political Studies, www.iasps.org/strat1.htm

[25] George W. Bush, Remarks by the President in Commencement Address at the University of South Carolina, White House, 9 Maggio 2003.

[26] Gilbert Achcar, Fantasy of a Region that Doesn’t Exist: Greater Middle East, the US plan, Le Monde Diplomatique, 4 Aprile 2004, http://mondediplo.com/2004/04/04world

[27] Ibid.

[28] William Pfaff, American-Israel Policy Tested by Arab Uprisings, http://www.truthdig.com/report/item/american-israeli_policy_tested_by_arab_uprisings_20110201/


Traduzione di Alessandro Lattanzio

Egypt: Decay Disguised as Victory

Egypt: Decay Disguised as Victory

Ex: http://www.counter-currents.com/

German translation here

peoples_revolution.jpgThe story is as familiar to us as our favorite Hollywood films and Stieg Larsson novels: evil industrialists, usually of fascist tendencies, rule over a land by cruelty, oppressing the innocent people.

A few lone brave voices stand out, are ignored for a while, then the people come to them and unite and the resulting mob takes down the dictator and saves the day. Yay! Toot!

The movie ends before you see how that works out, because filming 20 years of rebuilding a government is not only boring as bricks to most people, but also requires facing some hard truths. There will be blood.

As the Egyptian riots progressed, the media feeding frenzy spun “discontented students throwing bricks” into a full-on People’s Revolution For Great Justice, and then the rioters wised up and started calling it the same thing.

But as the days have trickled past, more of the truly interesting structure underneath the skin has emerged:

In an interview for the American news channel CNN, to be broadcast tomorrow, David Cameron said: “I think what we need is reform in Egypt. I mean, we support reform and progress in the greater strengthening of the democracy and civil rights and the rule of law.”

The US government has previously been a supporter of Mr Mubarak’s regime. But the leaked documents show the extent to which America was offering support to pro-democracy activists in Egypt while publicly praising Mr Mubarak as an important ally in the Middle East.

In a secret diplomatic dispatch, sent on December 30 2008, Margaret Scobey, the US Ambassador to Cairo, recorded that opposition groups had allegedly drawn up secret plans for “regime change” to take place before elections, scheduled for September this year. – The Telegraph

The USA uses its anti-culture as a neutralizing force. If your government has views we don’t like, or even might, we will export our disabling lifestyle to you. When democracy, consumerism and narcissism are in your country as well, you will be like us: unable to act except in “he attacked us first” circumstances, and always passive-aggressive.

Except for you, well, you’re not a superpower, so you can’t even be halfway effective. But your people will think they are happy. They will have McDonald’s and Coca-Cola, “freedom” (which no one will define), sexual liberation, welfare, etc. All the goodies will be free. You will have bought them off with the oldest bribes known to humanity. This will keep them and you as a nation ineffective, decadent and most likely compliant to the wishes of your favorite superpower.

A good instigator — or salesperson — knows that every person on earth has a weak spot. Something is not right in their view of the world, and so they can be manipulated. Don’t like those unsightly hairs? Think it’s terrible how we treat the Eskimoes? Wish the streets were painted pink? Well then: we have a solution (product) for you!

As a result, revolutions tend to find ideological expressions for psychological discontents. In Egypt, it wasn’t “freedom” — it was a rising population, meaning that people felt oppressed by each other’s needs, and they want to be bought off with goodies if they’re going to have to live in a dying society:

The truth is there are simply too many people for the country’s limited resources. When Mubarak came to power in 1981, there were 44 million. Today there are 83 million, and most live in a narrow ribbon of the Nile Valley, just over three per cent of the country.

The government has had to double the housing, double road and rail networks and in a desert country with little rain, greatly increase irrigation to feed the population.

Egypt has had to become the biggest importer of wheat in the world. Food price inflation is now running at 17 per cent and economists say living standards are lower than 1911, when there were only 12 million mouths to feed.

Just last November, economist Hamdi Abdel-Azim warned: “If the rise in food costs persists, there will be an explosion of popular anger against government.”

That said, Mubarak has for long been acutely aware of the looming crisis. In 2008, banners adorned Cairo streets, pleading: “Before you add another baby, make sure his needs are secured.” – The Express

Overpopulation doesn’t happen because of governments, especially not totalitarian governments. It happens because governments are not totalitarian enough to regulate breeding, as was done in China. Mubarak “pleaded” with his population, but if he wanted to stave off the revolution, he needed to make abortion mandatory until the population was under control. Instead, he gets this revolution.

Humans have a nasty habit of dressing up their covert wants and frustrations as ideological needs. Ideology may be the most defunct category of human ideas as a result, because most ideologies seem to be justifications for results that hide the actual impulses to that result.

It reminds me of college, where about sophomore year most males became “feminist” in order be able to partake in the sexual smorgasbord parading before our eyes. If you say the right thing in airy conceptual language, you get the right result in gritty earthy reality.

The United States government and the people of Egypt are both hiding behind “freedom” and “democracy” as excuses to manipulate a bad situation into a worse one. What happens when popular tastes turn toward violence? No one was thinking about that at the time, future history books will reveal.

Source: http://www.amerika.org/politics/egypt-decay-disguised-as-...

dimanche, 13 février 2011

Réflexions sur la crise égyptienne

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Réflexions sur la crise égyptienne

 

Par Bernard Lugan (1)

 

Après la Tunisie, l’Egypte s’est donc embrasée (2). Oubliant le « je ne blâme ni ne loue, je raconte », cette règle d’or de leur profession, les journalistes se sont une nouvelle fois faits les porte-voix des manifestants. Se pâmant littéralement devant leurs actions, ils n’eurent pas assez de superlatifs pour décrire le « Peuple » égyptien unanimement dressé contre le « dictateur » Moubarak.

 

Tout a basculé dans leur petit univers borné de certitudes et d’approximations quand des partisans de ce dernier sont à leur tour descendus dans la rue ; et en masse. Il y avait donc deux peuples !!! Cette constatation avait de quoi perturber des esprits formatés. Durant un temps l’explication leur fut facile : les contre-manifestants étaient des policiers et des nervis payés (3) ; puis, horreur, ils découvrirent qu’il s’agissait d’habitants venus  des « quartiers les plus pauvres». 

 

Ainsi donc, des miséreux osaient venir gâcher la grande célébration démocratique dont ils étaient devenus les porte-voix. Plus encore, ces gueux osaient, crime des crimes, s’en prendre aux journalistes, ignorant qu’en France, cette intouchable caste constitue un Etat dans l’Etat devant lequel rampent et se prosternent les plus puissants. Ils auront du moins retenu de leur séjour au Caire que sur les rives du Nil les références ne sont pas celles des bords de Seine et que les voyages sont plus formateurs que les écoles de journalisme.

 

Ces ignorants n’ont pas vu que la vie politique égyptienne est organisée autour de trois grandes forces. La première, celle qui manifeste en demandant le départ du président Moubarak et pour laquelle ils ont les yeux si doux, est, comme en Tunisie, composée de gens qui mangent à leur faim ; il s’agit en quelque sorte de « privilégiés » pouvant s’offrir le luxe de revendiquer la démocratie. La seconde est celle des Frères musulmans ; pourchassée depuis des décennies et aujourd’hui abritée derrière les idiots utiles, cette organisation tente de se réintroduire dans l’échiquier politique pour imposer sa loi. La troisième force dont aucun « envoyé spécial » n’a jamais entendu parler est celle qui vit dans les quartiers défavorisés, loin donc de l’hôtel Hilton, ce spartiate quartier général des journalistes « baroudeurs », ou dans les misérables villages de la vallée du Nil, loin des yeux des touristes. C’est celle des fellahs besogneux, de ce petit peuple nassérien au patriotisme à fleur de peau qui exècre à la fois la bourgeoisie cosmopolite lorgnant du côté de Washington et les barbus qui voudraient ramener l’Egypte au X° siècle. Ce sont ces hommes qui ont volé au secours du Rais Moubarak en qui ils voient, à tort ou à raison, là n’est pas la question, un  successeur, même lointain, du colonel Nasser.

 

Dernière remarque : pendant que la classe politique française sommait le président Moubarak de quitter le pouvoir, le président russe Medvedev avait un long entretien téléphonique avec lui, l’assurant qu’il s’élevait contre les ingérences étrangères. D’un côté des chiens de Pavlov levant la patte face à l’air du temps et de l’autre, un  homme d’Etat familier des subtilités de l’« orient mystérieux »…  

 

Notes

 

(1) Auteur d’Histoire de l’Egypte des origines à nos jours. Editions du Rocher, 2002.

(2) Je l’avais annoncé dans mon communiqué en date du 16 janvier 2011 (cliquez ici).

(3) Le chamelier et les vingt-deux cavaliers que l’on vit traverser la foule sont des guides pour touristes affectés au site des pyramides et rendus furieux d’être sans travail depuis le début de la révolution.

 

Source L'Afrique réelle : cliquez ici

 

vendredi, 11 février 2011

Israels Eifersucht

Israels Eifersucht

Michael Grandt

Der jüdische Staat brüstet sich gerne damit, die einzige Demokratie im Nahen Osten zu sein. Nach den Ereignissen in Ägypten könnte sich das aber vielleicht bald ändern. Vielen »freiheitsliebenden« Israelis wäre es deshalb lieber, wenn der ägyptische Diktator weiter an der Macht bleiben würde.

Es mutet skurril an: Politisch Verantwortliche aller Couleur propagierten allenthalben »Freiheit für alle«. Doch wie sich jetzt im Falle Ägyptens herausstellt, meinten sie das nur halbherzig und verspüren, nur weil es sich um Araber handelt, mehr Angst als Freude, wenn ein ganzes Volk einen Diktator abschütteln und freie Wahlen haben will.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/mic...

Ägypten vor Militärputsch: Amerikanische Kriegsschiffe im Suezkanal

Ägypten vor Militärputsch: Amerikanische Kriegsschiffe im Suezkanal

Redaktion

Ägypten steht vor dem wirtschaftlichen Zusammenbruch. Die Lage ist so angespannt, dass eine Machtübernahme des Militärs nicht länger als Bedrohung, sondern als einzige Hoffnung gesehen wird, das Land vor einem wirtschaftlichen Kollaps zu bewahren. Ein amerikanischer Marineverband mit sechs Kriegsschiffen und einem Hubschrauberträger ist in den Suezkanal eingelaufen.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/red...

samedi, 05 février 2011

Teilung des Sudans - Eine Tragödie ohne Ende?

Teilung des Sudans – Eine Tragödie ohne Ende?

Wolfgang Effenberger

Der Südsudan strebt die Unabhängigkeit vom Zentralstaat an. Er verfügt über große Ölreserven, doch nur der Norden hat die Raffinerien und die dafür notwendige Infrastruktur. Streit scheint vorprogrammiert. Erstaunlicherweise steht die Selbstständigkeit des Südsudans im Weißen Haus ganz oben auf der Tagesordnung. Außenministerin Hillary Clinton forderte den sudanesischen Vizepräsidenten Ali Osman Taha und den politischen Führer des autonomen Südens, Salva Kiir, in Telefonaten auf, das Friedensabkommen umzusetzen.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/wol...

jeudi, 03 février 2011

Die Rolle der CIA in Ägypten: wer ist Omar Suleiman?

Die Rolle der CIA in Ägypten: wer ist Omar Suleiman?

Redaktion

 

Omar Suleiman ist eine der Personen, die derzeit als mögliche Alternative für die Nachfolge des ägyptischen Präsidenten Hosni Mubarak ins Spiel gebracht werden. Nachdem Mubarak am 28. Januar sein Kabinett entlassen hatte, ernannte er Suleiman zum Vizepräsidenten. Doch wer ist dieser Omar Suleiman?

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/red...

 

 

mardi, 01 février 2011

Egypte: Israël roept Washington en Europa op om Moebarak te steunen

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Egypte: Israël roept Washington en Europa op om Moebarak te steunen
       
JERUZALEM 31/01 (AFP) = Israël heeft de Verenigde Staten en de Europese landen in een vertrouwelijke boodschap opgeroepen om het Egyptische regime van Hosni Moebarak te steunen. Dat meldt de krant Haaretz maandag.

In de boodschap onderstrepen de Israeliërs dat het in het belang van het Westen en van het hele Midden-Oosten is om de stabiliteit van het regime in Egypte te bewaren en dat er bijgevolg voorzichtiger moet worden omgesprongen met openlijke kritiek op president Moebarak. Volgens de krant is de oproep een vingerwijzing aan het adres van Washington en de Europese landen die hun steun aan het regime hebben
opgezegd. 

Een woordvoerder van de Israëlische premier Benjamin Netanyahu wilde de oproep niet bevestigen of ontkennen.

Tot hiertoe hield Israël zich eerder op de vlakte ten opzichte van de golf van protest in Egypte. Netanyahu zou aan zijn ministers de opdracht hebben gegeven om zich te onthouden van commentaar. Zelf verklaarde hij zondag enkel dat Israël de vrede met Egypte in stand wil houden. "Er is nu al meer dan drie decennia lang vrede met Egypte. Ons doel is om dat zo te houden", luidde het. SVR/WDM/

dimanche, 30 janvier 2011

"La véritable virilité pour les afro-descendants réside dans leur retour en Afrique"

« La véritable virilité pour les afro-descendants réside dans leur retour en Afrique »

Par Stellio Robert, alias Stellio Capo Chichi, alias Kemiour Aarim Shabaz, alias Kemi Seba, « prédicateur panafricain » qui annonce quitter la France pour le Sénégal en mai 2011.

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Face à la discrimination, la véritable virilité pour les afro-descendants réside dans leur retour en Afrique afin de participer à la construction de ce continent, plutôt que dans la mendicité d’une place en France en prônant l’intégration.

Dire que la négrophobie et autres actes racistes se banalisent, se démocratisent en France ne relève plus de l’anecdote mais bien du fait établi voire de l’euphémisme. Habitué aux violences policières de toutes sortes (tabassage dans des fourgons, utilisation mortelle de Taser, évacuation musclée des familles mal-logées, violence en réunion, etc.).

La nouveauté vient du fait que les langues se délient (de plus en plus facilement) aussi bien sur les chaînes grand public (exemple du parfumeur Guerlain) que dans les plus hautes sphères de l’État (Brice Hortefeux, Éric Besson avec le débat sur l’identité nationale, les tests ADN, etc.).

Il est clair que l’ambiance, en France, est délétère, déjà pour les Français dits de souche, au vu de la crise économique et de son lot de délocalisations, de pertes d’emplois, de chômage record, mais aussi et surtout pour la communauté afro-descendante. La précarité, la discrimination à l’embauche comme au logement, ajoutée au stress que créé cette situation sous couvert de crise économique, font que la vie pour cette population est insupportable, intenable.

Et ce ne sont certainement pas les hommes et femmes politiques français, toutes tendances confondues, qui vont remédier à cela en proposant des solutions viables, sérieuses. Ils n’en n’ont pas, et ils le savent très bien. Bien au contraire, ces populations immigrées deviennent de plus en plus les sujets d’enjeux bassement électoralistes.

Face à un tel constat catastrophique, la seule et unique solution pour extirper ces communautés de la lente « clochardisation, » à laquelle certains font déjà face, est de se prendre en main.

Se prendre en main en se disant qu’il vaut mieux être roi chez soi que mendiant chez autrui. L’Afrique est un continent riche qui n’attend que ses enfants… Que ceux qui l’aiment véritablement viennent à elle pour travailler à son développement, plutôt que de continuer à s’émerveiller devant l’occidental allaitement qui nous avilit à travers bon nombres d’oeuvres pseudo-humanitaires.

L’Occident en général, et la France en particulier, n’a plus les moyens d’accueillir décemment les gens sur son territoire. Elle n’a déjà plus rien à s’offrir à elle-même, ce n’est certainement pas à des populations immigrées en difficulté qu’elle offrira quoique se soit. Pour échapper à cette situation de crise, pour ne plus avoir à faire face à des actes racistes, il est préférable de faire retour en Afrique pour construire un chez soi sûr.

Le retour volontaire et définitif en Afrique pour des objectifs clairs, viables est la seule et unique voie pour remédier aux problèmes que rencontrent ces populations d’immigrés en difficulté installées en France. On ne peut se sentir bien là nous où l’on n’est pas désiré, là où il n’y a plus de perspectives d’avenir, là où on n’est pas chez soi.

Tôt ou tard, l’Afrique demandera des comptes à sa diaspora. CONSTRUISONS, et rejoignons Afrikan Mosaïque (qui fait vivre des gens par centaines, à travers les emplois qu’elle a créée, grâce à la construction, toujours en cours, du village).

La Société Afrikan Mosaïque recrute ! Pour les entretiens d’embauche, contactez-les au 07 60 72 65 75

Kemi Seba

(Merci à jean-marc)

La balcanizzazione del Sudan: il ridisegno del Medio Oriente e Africa del Nord

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La balcanizzazione del Sudan: il ridisegno del Medio Oriente e Africa del Nord

Il Sudan è una nazione diversa e un paese che rappresenta la pluralità dell’Africa delle varie tribù, clan, etnie, gruppi religiosi. Tuttavia l’unità del Sudan è in questione, mentre si parla di nazioni unificanti e del giorno della creazione degli Stati Uniti d’Africa attraverso l’Unione africana.
La ribalta è per il referendum del gennaio 2011 in Sud Sudan. L’amministrazione Obama ha annunciato ufficialmente che sostiene la separazione del Sudan meridionale dal resto del Sudan.

La balcanizzazione del Sudan è quello che è veramente in gioco. Per anni i dirigenti ed i funzionari del Sud Sudan sono stati sostenuti dagli USA e dall’Unione europea.

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La politicamente motivata demonizzazione del Sudan

 

Una campagna di demonizzazione importante è in corso contro il Sudan e il suo governo. È vero, il governo sudanese di Khartoum ha avuto un record negativo per quanto riguarda i diritti umani e la corruzione dello stato, e nulla poteva giustificare questo.

Per quanto riguarda il Sudan, condanne selettive o mirate sono state attuate. Ci si dovrebbe, tuttavia, chiedere perché la leadership sudanese è presa di mira dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, mentre la situazione dei diritti umani in diversi clienti sponsorizzati dagli Stati Uniti tra cui l’Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, e l’Etiopia sono casualmente ignorate.

Khartoum è stato diffamata come una oligarchia autocratica colpevole di genocidio mirato sia in Darfur e Sud Sudan. Questa attenzione deliberata sullo spargimento di sangue e l’instabilità nel Darfur e nel Sud Sudan è politica e motivata dai legami di Khartoum con gli interessi petroliferi cinesi.

Il Sudan fornisce alla Cina una notevole quantità di petrolio. La rivalità geo-politica tra Cina e Stati Uniti per il controllo delle forniture energetiche mondiali e africane, è il vero motivo per il castigo del Sudan e il forte sostegno dimostrato dagli Stati Uniti, dall’Unione europea e dagli ufficiali israeliani alla secessione nel Sud Sudan.

E’ in questo contesto che gli interessi cinesi sono stati attaccati. Ciò include l’attacco dell’ottobre 2006 alla Greater Nile Petroleum Company di Defra, Kordofan, da parte della milizia del Justice and Equality Movement (JEM).

Distorcere le violenze in Sudan

Mentre c’è una crisi umanitaria in Darfur e un forte aumento del nazionalismo regionale nel Sudan meridionale, le cause profonde del conflitto sono stati manipolate e distorte. Le cause di fondo della crisi umanitaria in Darfur e il regionalismo nel Sud Sudan sono intimamente collegate a interessi strategici ed economici. Se non altro, l’illegalità e i problemi economici sono i veri problemi, che sono stati alimentati da forze esterne.

Direttamente o tramite proxy (pedine) in Africa, gli Stati Uniti, l’Unione europea e Israele sono i principali architetti degli scontri e dell’instabilità sia in Darfur che in Sud Sudan. Queste potenze straniere hanno finanziato, addestrato e armato le milizie e le forze di opposizione al governo sudanese in Sudan. Esse scaricano la colpa sulle spalle di Khartoum per qualsiasi violenza, mentre esse stesse alimentano i conflitti al fine di controllare le risorse energetiche del Sudan. La divisione del Sudan in diversi stati è parte di questo obiettivo. Il Supporto al JEM, al Sud Sudan Liberation Army (SSLA) e alle altre milizie che si oppongono al governo sudanese da parte degli Stati Uniti, dell’Unione europea e d’Israele è orientato al raggiungimento dell’obiettivo di dividere il Sudan.

E’ anche un caso che per anni, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, e l’intera UE, con la scusa dell’umanitarismo stiano spingendo al dispiegamento di truppe straniere in Sudan. Hanno attivamente sostenuto il dispiegamento di truppe NATO in Sudan sotto la copertura di un mandato di peacekeeping delle Nazioni Unite.

Si tratta della rievocazione delle stesse modalità utilizzate dagli Stati Uniti e dall’Unione europea in altre regioni, in cui i paesi sono stati suddivisi a livello informale o formale e le loro economie ristrutturate dai proxy installati da governi stranieri, sotto la presenza di truppe straniere. Questo è quello che è successo nella ex Jugoslavia (attraverso la creazione di numerose nuove repubbliche) e nell’Iraq occupato dagli anglo-statunitensi (attraverso la balcanizzazione soft tramite una forma di federalismo calcolato, volto a definire uno stato debole e de-centralizzato). Le truppe straniere e una presenza straniera hanno fornito la cortina per lo smantellamento dello stato e l’acquisizione estera delle infrastrutture, risorse ed economie pubbliche.

La questione dell’identità in Sudan

Mentre lo stato sudanese è stato dipinto come oppressivo nei confronti del popolo del Sud Sudan, va osservato che sia il referendum che la struttura di condivisione del potere del governo sudanese, rappresentano qualcos’altro. L’accordo per la condivisione del potere a Khartoum tra Omar Al-Basher, il presidente del Sudan, include il SPLM. Il leader del SPLM, Salva Kiir Mayardit, è il primo vicepresidente del Sudan e  presidente del Sud Sudan.

La questione etnica è stata anche portata alla ribalta dal nazionalismo regionale o etno-regionale che è stato coltivato in Sud Sudan. La scissione in Sudan tra i cosiddetti arabi sudanesi e i cosiddetti africani sudanesi è stata presentata al mondo come la forza principale del nazionalismo regionale che motivatamente chiede di fondare uno Stato in Sud Sudan. Nel corso degli anni, questa auto-differenziazione è stata diffusa e socializzata nella psiche collettiva delle popolazioni del Sud Sudan.

Eppure, le differenze tra i cosiddetti sudanesi arabi e i cosiddetti africani sudanesi non sono un granché. L’identità araba dei cosiddetti arabi sudanesi si basa principalmente sull’uso della loro lingua araba. Supponiamo anche che le identità etniche sudanesi sono totalmente separate. E’ ancora noto, in Sudan, che entrambi i gruppi sono molto eterogenei. L’altra differenza tra il Sud Sudan e il resto del Sudan è che l’Islam predomina nel resto del Sudan e non in Sud Sudan. Entrambi i gruppi sono ancora profondamente legati l’uno all’altro, tranne che per un senso di auto-identificazione, che è ben nel loro diritto avere. Eppure, sono proprio queste diverse identità su cui si è giocato da parte dei leader locali e delle potenze straniere.

La negligenza della popolazione locale di diverse regioni, da parte delle élites del Sudan, è la causa principale dell’ansia o dell’animosità realmente motivate tra le persone nel Sud Sudan e il governo di Khartoum, e non le differenze tra i cosiddetti arabi e i cosiddetti africani sudanesi.
Il favoritismo regionale ha operato in Sud Sudan.

La questione è anche aggravata dalla classe sociale. Il popolo del Sud Sudan crede che la sua condizione economica e tenore di vita migliorerà se formerà una nuova repubblica. Il governo di Khartoum e i sudanesi non-meridionali sono stati usati come capri espiatori per le miserie economiche del popolo del Sud Sudan e della loro percezione della povertà relativa da parte della leadership locale del Sud Sudan. In realtà, i funzionari locali del Sudan meridionale non miglioreranno le condizioni di vita delle popolazioni del Sud Sudan, ma manterranno uno status quo cleptocratico. [1]

Il progetto a lungo termine per balcanizzare il Sudan e i suoi collegamenti con il mondo arabo

In realtà, il progetto di balcanizzazione del Sudan è in corso dalla fine del dominio coloniale britannico nel Sudan anglo-egiziano. Sudan ed Egitto sono stati un paese solo per molti differenti periodi. Sia l’Egitto che il Sudan sono stati anche un paese, in pratica fino al 1956.

Fino alla indipendenza del Sudan, c’era un forte movimento per mantenere l’Egitto e il Sudan uniti come un unico stato arabo, che stava lottando contro gli interessi britannici. Londra, tuttavia, alimentò il regionalismo sudanese contro l’Egitto, e nello stesso modo il regionalismo è al lavoro nel Sud Sudan contro il resto del Sudan. Il governo egiziano è stato raffigurato nello stesso modo di come lo è oggi Khartoum. Gli egiziani sono stati dipinti come sfruttatori dei sudanesi, come i sudanesi non-meridionali sono stati dipinti come sfruttatori dei sudanesi del sud.

Dopo l’invasione britannica di Egitto e Sudan, gli inglesi riuscirono anche a mantenere le loro truppe di stanza in Sudan. Anche mentre lavoravano per dividere il Sudan dall’Egitto, i britannici hanno lavorato per creare differenziazioni interne tra il Sud Sudan e il resto del Sudan. Ciò è stato fatto attraverso il condominio anglo-egiziano del 1899-1956, che costrinse l’Egitto a condividere il Sudan con la Gran Bretagna dopo le rivolte mahdiste. Alla fine, il governo egiziano avrebbe rifiutato di riconoscere il condominio anglo-egiziano come legale. Il Cairo avrebbe continuamente chiesto agli inglesi di porre fine alla loro occupazione militare illegale del Sudan e di smettere di impedire la re-integrazione di Egitto e Sudan, ma gli inglesi si rifiuteranno.

Sarà sotto la presenza delle truppe britanniche che il Sudan si sarebbe dichiarato indipendente. Questo è ciò che porterà alla nascita del Sudan come una stato arabo e africano separato dall’Egitto. Così, il processo di balcanizzazione è iniziato con la divisione del Sudan dall’Egitto.

Il Piano Yinon al lavoro in Sudan e nel Medio Oriente

La balcanizzazione del Sudan è legato anche al Piano Yinon, che è la continuazione dello stratagemma britannico. L’obiettivo strategico del Piano Yinon è quello di garantire la superiorità israeliana attraverso la balcanizzazione del Medio Oriente e degli stati arabi, in stati più piccoli e più deboli. E’ in questo contesto che Israele è stato profondamente coinvolto in Sudan. Gli strateghi israeliani videro l’Iraq come la loro più grande sfida strategica da uno stato arabo. È per questo che l’Iraq è stato delineato come il pezzo centrale per la balcanizzazione del Medio Oriente e del mondo arabo.The Atlantic, in questo contesto, ha pubblicato un articolo nel 2008 di Jeffrey Goldberg “Dopo l’Iraq: sarà così il Medio Oriente?” [2] In questo articolo di Goldberg, una mappa del Medio Oriente è stato presentato, che seguiva da vicino lo schema del Piano Yinon e la mappa di un futuro in Medio Oriente, presentato dal Tenente-colonnello (in pensione) Ralph Peters, nell’Armed Forces Journal delle forze armate degli Stati Uniti, nel 2006.

Non è neanche un caso che da un Iraq diviso a un Sudan diviso, comparivano sulla mappa. Libano, Iran, Turchia, Siria, Egitto, Somalia, Pakistan e Afghanistan erano presentati anch’esse come nazioni divise. Importante, nell’Africa orientale nella mappa, illustrata da Holly Lindem per l’articolo di Goldberg, l’Eritrea è occupata dall’Etiopia, un alleato degli Stati Uniti e d’Israele, e la Somalia è divisa in Somaliland, Puntland, e una più piccola Somalia.

In Iraq, sulla base dei concetti del Piano Yinon, gli strateghi israeliani hanno chiesto la divisione dell’Iraq in uno stato curdo e due stati arabi, una per i musulmani sciiti e l’altra per i musulmani sunniti. Ciò è stato ottenuto attraverso la balcanizzazione morbida del federalismo nell’Iraq, che ha permesso al Governo regionale del Kurdistan di negoziare con le compagnie petrolifere straniere per conto suo. Il primo passo verso l’istituzione di ciò fu la guerra tra Iraq e Iran, che era discussa nel Piano Yinon.

In Libano, Israele ha lavorato per esasperare le tensioni settarie tra le varie fazioni cristiane e musulmane, nonché i drusi. La divisione del Libano in diversi stati è anche visto come un mezzo per balcanizzare la Siria in piccoli diversi stati arabi settari. Gli obiettivi del Piano Yinon sono di dividere il Libano e la Siria in diversi stati sulla base dall’identità religiosa e settaria per i musulmani sunniti, sciiti, cristiani e drusi.

A questo proposito, l’assassinio di Hariri e il Tribunale speciale per il Libano (STL) giocano a favore di Israele, creando divisioni interne nel Libano e alimentando il settarismo politico. Questo è il motivo per cui Tel Aviv è stato assaiu favorevole al TSL e l’appoggia assai attivamente. In un chiaro segno della natura politicizzata del TSL e dei suoi legami con la geo-politica, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno anche dato al TSL milioni di dollari.

I legami tra gli attacchi contro i copti egiziani e il referendum in Sud Sudan

Dall’Iraq all’Egitto, i cristiani in Medio Oriente sono sotto attacco, mentre le tensioni tra musulmani sciiti e sunniti sono alimentate. L’attacco a una chiesa copta di Alessandria, il 1° gennaio 2011, o le successive proteste e rivolte copte non dovrebbero essere considerati isolatamente. [3] Né la furia successiva dei cristiani copti espressasi nei confronti dei musulmani e del governo egiziano. Questi attacchi contro i cristiani sono legati ai più ampi obiettivi geo-politica di Stati Uniti, Gran Bretagna, Israele e NATO sul Medio Oriente e sul mondo arabo.

Il Piano Yinon precisa che se l’Egitto viene  diviso, il Sudan e la Libia sarebbero anch’esse balcanizzate e indebolite. In questo contesto, vi è un legame tra il Sudan e l’Egitto. Secondo il Piano Yinon, i copti o cristiani d’Egitto, che sono una minoranza, sono la chiave per la balcanizzazione degli stati arabi del Nord Africa. Così, secondo il piano Yinon, la creazione di uno stato copto in Egitto (sud Egitto) e le tensioni cristiani-musulmani in Egitto, sono dei passi essenziali per balcanizzare il Sudan e il Nord Africa.

Gli attacchi ai cristiani in Medio Oriente sono parte delle operazioni di intelligence destinata a dividere il Medio Oriente e il Nord Africa. La tempistica degli attacchi crescenti ai cristiani copti in Egitto e il processo per il referendum nel Sud Sudan, non è una coincidenza. Gli eventi in Sudan ed Egitto sono collegati l’uno all’altro e sono parte del progetto per balcanizzare il mondo arabo e il Medio Oriente. Essi devono anche essere studiati in collaborazione con il Piano Yinon e con gli eventi in Libano e in Iraq, nonché in relazione agli sforzi per creare un divario sunniti-sciiti.

Le connessioni esterne di SSLA, SPLM e milizie nel Darfur

Come nel caso del Sudan, l’interferenza o l’intervento sono stati usati per giustificare l’oppressione dell’opposizione interna. Nonostante la  corruzione, Khartoum è stata sotto assedio per aver rifiutato di essere semplicemente un proxy. Il Sudan s’è giustificato sospettando le truppe straniere e accusando Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele di erodere la solidarietà nazionale del Sudan.  Per esempio, Israele ha inviato armi ai gruppi di opposizione e ai movimenti separatisti in Sudan. Ciò è stato fatto attraverso l’Etiopia per anni, fino a quando l’Eritrea è diventata indipendente dall’Etiopia, che ha fatto perdere all’Etiopia l’accesso al Mar Rosso, e fatto sviluppare cattive relazioni tra gli etiopi e gli eritrei. In seguito le armi israeliane sono entrate nel Sud Sudan dal Kenya. Dal Sud Sudan, il People’s Liberation Movement del Sud Sudan (SPLM), che è il braccio politico del SSLA, avrebbe ceduto le armi alle milizie nel Darfur. I governi di Etiopia e Kenya, così come l’Uganda People’s Defence Force(UPDF), hanno anche lavorato a stretto contatto con Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele in Africa orientale.

Il grado d’influenza israeliana nell’opposizione sudanese e nei gruppi separatisti è significativo. Il SPLM ha forti legami con Israele e suoi membri e sostenitori regolarmente visitano Israele. È grazie a questo, che Khartoum ha capitolato e ha rimosso le restrizioni ai passaporti sudanesi per le visita in Israele, alla fine del 2009, per soddisfare il SPLM. [4] Salva Kiir Mayardit ha anche detto che il Sud Sudan riconoscerà Israele quando sarà separato dal Sudan.

The Sudan Tribune ha riferito, il 5 marzo 2008, che gruppi separatisti in Darfur e nel Sudan meridionale aveva uffici in Israele:
I sostenitori di Israele [del Movimento di liberazione del Popolo del Sudan ] hanno annunciato la costituzione della sede in Israele del Sudan People’s Liberation Movement, ha detto oggi un comunicato stampa. 
Dopo consultazioni con i leader della SPLM a Juba, i sostenitori del SPLM in Israele hanno deciso di istituire l’ufficio del SPLM in Israele”. Detto [sic.] un comunicato ricevuto via email da Tel Aviv, firmato dalla segreteria dell’SLMP in Israele. La dichiarazione ha detto che l’ufficio avrebbe  promosso le politiche e la visione del SPLM nella regione. Ha inoltre aggiunto che, in conformità con il Comprehensive Peace Agreement, lo SPLM ha il diritto di aprire uffici in qualsiasi paese, compreso Israele. Ha inoltre segnalato che ci sono circa 400 sostenitori dell’SPLM in Israele. Il leader dei ribelli del Darfur, Abdel Wahid al-Nur ha detto la scorsa settimana, che ha aperto un ufficio a Tel Aviv. [5]”

Il dirottamento del referendum del 2011 in Sud Sudan

Cosa è successo al sogno di un’Africa unita o di un mondo arabo unito? Il Panarabismo, un movimento di unità di tutti i popoli di lingua araba, ha avuto pesanti perdite, come nell’unità africana. Il mondo arabo e l’Africa sono stati costantemente balcanizzati.

La secessione e balcanizzazione in Africa orientale e nel mondo arabo sono nei piani degli Stati Uniti, d’Israele e della NATO.

L’insurrezione della SSLA è stata segretamente sostenuta da Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele dagli anni ’80. La formazione di un nuovo stato in Sudan non è destinata a servire gli interessi del popolo del Sud Sudan. Fa parte di un più ampio programma geo-strategico mirato al controllo del Nord Africa e del Medio Oriente.

Il conseguente processo di “democratizzazione” che porta fino al referendum del Gennaio 2011, serve gli interessi delle compagnie petrolifere anglo-statunitensi e alla rivalità contro la Cina. Questo avviene a detrimento della vera sovranità nazionale in Sud Sudan.

Mahdi Darius Nazemroaya è un ricercatore associato del Centre for Research on Globalization (CRG).

NOTE
[1] una cleptocrazia è un governo e/o stato che lavora per proteggere, estendere, approfondire, continuare e consolidare la ricchezza della classe dirigente.

[2] Jeffrey Goldberg, “After Iraq: What Will The Middle East Look Like?” The Atlantic, gennaio/febbraio 2008.

[3] William Maclean, “Copts on global Christmas alert after Egypt bombing”, Reuters, 5 gennaio 2011.
[4] “Sudan removes Israel travel ban from new passport”, Sudan Tribune, 3 ottobre 2009: 


[5] “Sudan’s SPLM reportedly opens an office in Israel – statement”, Sudan Tribune, 5 marzo 2008:

http://www.sudantribune.com/spip.php?page=imprimable&....

 

 

 

ALLEGATO: La mappa del “Nuovo Medio Oriente” del The Atlantic
Nota: la seguente mappa è stata disegnata da Holly Lindem per un articolo di Jeffrey Goldberg. E’ stata pubblicata su The Atlantic di gennaio/febbraio 2008. (Copyright: The Atlantic, 2008). 

Fonte: Global Research 

http://globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=22736 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://www.sudantribune.com/spip.php?iframe&page=impr...

 

 

 

di Mahdi Darius Nazemroaya - 27/01/2011

Fonte: eurasia [scheda fonte]

 

 

 

 

samedi, 29 janvier 2011

Tunisie: la révolution des privilégiés?

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Tunisie : la révolution des privilégiés ?

Un communiqué de Bernard Lugan : 

 

Ex: http://synthesenationale.hautetfort.com/

 

En France, les tartuffes politiques ont applaudi la chute d’une dictature qu’ils fréquentaient assidûment peu auparavant, à commencer par ceux qui voulaient cacher que le RCD (Rassemblement constitutionnel démocratique), le parti du président déchu était membre de l’Internationale socialiste [1].

 

Tous ont oublié qu’en 1987, l’accession au pouvoir du général Ben Ali avait été unanimement saluée comme une avancée démocratique, que sous sa ferme direction, la subversion islamiste avait été jugulée, que la Tunisie était devenue un pays moderne dont la crédibilité permettait un accès au marché financier international. Attirant capitaux et industries, le pays avait à ce point progressé que 80% des Tunisiens étaient devenus propriétaires de leur logement. Ce pôle de stabilité et de tolérance dans un univers musulman souvent chaotique voyait venir à lui des millions de touristes recherchant un exotisme tempéré par une grande modernité. Des milliers de patients venaient s’y faire opérer à des coûts inférieurs et pour une même qualité de soins qu’en Europe. Dans ce pays qui consacrait plus de 8% de son PIB à l’éducation, la jeunesse était scolarisée à 100%, le taux d’alphabétisation était de plus de 75%, les femmes étaient libres et ne portaient pas le voile ; quant à la démographie, avec un taux de croissance de 1,02%, elle avait atteint un quasi niveau européen. 20% du PIB national était investi dans le social et plus de 90% de la population bénéficiait d’une couverture médicale. Autant de réussites quasiment uniques dans le monde arabo-musulman, réussites d’autant plus remarquables qu’à la différence de l’Algérie et de la Libye, ses deux voisines, la Tunisie ne dispose que de faibles ressources naturelles.

 

Les Tunisiens étaient donc des privilégiés auxquels ne manquait qu’une liberté politique généralement inexistante dans le monde arabo-musulman. Ils se sont donc offert le luxe d’une révolution en ne voyant pas qu’ils se tiraient une balle dans le pied. Leur euphorie risque d’ailleurs d’être de courte durée car le pays va devoir faire le bilan d’évènements ayant provoqué des pertes qui s’élevaient déjà à plus de 2 milliards d’euros à la mi-janvier et qui représentaient alors 4% du PIB. La Tunisie va donc sortir de l’épreuve durablement affaiblie, à l’image du secteur touristique qui recevait annuellement plus de 7 millions de visiteurs et qui est aujourd’hui totalement sinistré, ses 350 000 employés ayant rejoint les 13,2% de chômeurs que comptait le pays en décembre 2010.

 

Pour le moment, les Tunisiens ont l’illusion d’être libres. Les plus naïfs croient même que la démocratie va résoudre tous leurs maux, que la corruption va disparaître, que le chômage des jeunes va être résorbé, tandis que les droits de la femme seront sauvegardés… Quand ils constateront qu’ils ont scié la branche sur laquelle ils étaient en définitive relativement confortablement assis, leur réveil sera immanquablement douloureux. Déjà, dans les mosquées, les prêches radicaux ont recommencé et ils visent directement le Code de statut personnel (CSP), ce statut des femmes unique dans le monde musulman. Imposé par Bourguiba en 1956, puis renforcé par Ben Ali en 1993, il fait en effet des femmes tunisiennes les totales égales des hommes. Désormais menacée, la laïcité va peu à peu, mais directement être remise en cause par les islamistes et la Tunisie sera donc, tôt ou tard, placée devant un choix très clair : l’anarchie avec l’effondrement économique et social ou un nouveau pouvoir fort.

 

Toute l’Afrique du Nord subit actuellement l’onde de choc tunisienne. L’Egypte est particulièrement menacée en raison de son effarante surpopulation, de l’âge de son président, de la quasi disparition des classes moyennes et de ses considérables inégalités sociales. Partout, la première revendication est l’emploi des jeunes et notamment des jeunes diplômés qui sont les plus frappés par le chômage. En Tunisie, à la veille de la révolution, deux chômeurs sur trois avaient moins de 30 ans et ils sortaient souvent de l’université. Le paradoxe est que, de Rabat à Tunis en passant par Alger, les diplômés sont trop nombreux par rapport aux besoins. Une fois encore, le mythe du progrès à l’européenne a provoqué un désastre dans des sociétés qui, n’étant pas préparées à le recevoir, le subissent.

 

En Algérie, où la cleptocratie d’Etat a dilapidé les immenses richesses pétrolières et gazières découvertes et mises en activité par les Français, la jeunesse n’en peut plus de devoir supporter une oligarchie de vieillards justifiant des positions acquises et un total immobilisme social au nom de la lutte pour l’indépendance menée il y a plus d’un demi-siècle. Même si les problèmes sociaux y sont énormes, le Maroc semble quant à lui mieux armé dans la mesure où la monarchie y est garante de la stabilité, parce qu’un jeune roi a su hisser aux responsabilités une nouvelle génération et parce que l’union sacrée existe autour de la récupération des provinces sahariennes. Mais d’abord parce que le Maroc est un authentique Etat-nation dont l’histoire est millénaire. Là est toute la différence avec une Algérie dont la jeunesse ne croit pas en l’avenir car le pays n’a pas passé, la France lui ayant donné ses frontières et jusqu’à son nom.

 

   

 

 

mercredi, 26 janvier 2011

Les agriculteurs africains sont perdants...

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Les agriculteurs africains sont perdants – leurs Etats louent des terres agricoles à des investisseurs étrangers

On constate avec une grande inquiétude que de vastes superficies sont vendues à des investisseurs ou affermées

par Neill MacFarquhar

Ex:http://www.horizons-et-debats.ch/

La demi-douzaine d’étrangers qui s’arrêtèrent dans un village éloigné de l’Afrique occidentale apportèrent des nouvelles alarmantes aux paysans vivant au jour le jour: leurs modestes champs qu’ils cultivaient depuis des générations, seraient dès à présent contrôlés par le leader libyen Muammar al Kadhafi et tous les paysans devraient quitter leurs champs.
«Ils nous dirent que cette période des pluies seraient la dernière durant laquelle nous pouvons cultiver nos champs. Puis qu’ensuite, ils raseraient toutes les maisons et prendraient possession des terres» dit Mama Keita, 73 ans, la cheffe du village qui est entouré de broussailles à épines. «On nous a dit que les terres appartenaient à Kadhafi».
Dans toute l’Afrique et dans d’autres pays en voie de développement, une nouvelle ruée vers les terres avale d’immenses régions de terres cultivables. Malgré des traditions immémoriales, de plus en plus de villageois désemparés découvrent que des gouvernements africains possèdent tout à coup leurs terres et qu’ils les ont loués – souvent à des prix sacrifiés – pour des décennies à des gouvernements étrangers ou à des investisseurs privés.
Des organisations comme les Nations Unies ou la Banque mondiale prétendent que, appliquée loyalement, cette façon de faire pouvait fournir une contribution à l’alimentation de la population mondiale grandissante, par l’introduction d’une agriculture commerciale sur des surfaces étendues dans des endroits qui ne la connaissaient pas jusqu’ici.
En revanche, d’autres organisations taxent ces affaires de vol néocolonial qui détruit des villages, déracine des dizaines de milliers de paysans et crée une masse innombrable de pauvres sans terre. Et ce qui aggraverait la chose, c’est que la majeure partie des aliments est destinée à des nations plus riches.
«La sécurité alimentaire du pays en question doit être prioritaire pour tous» disait l’ancien secrétaire général de l’ONU Kofi Annan qui s’occupe maintenant de questions de l’agriculture africaine. «Sinon il s’agit simplement d’exploitation et cela ne marchera pas. Nous avons déjà vécu une ‹bousculade pour l’Afrique› (la colonisation et le partage du continent africain du temps de l’impérialisme entre 1880 et 1914). Je ne crois pas que nous voulons vivre une deuxième course de ce genre».
Une étude de la Banque mondiale publiée en septembre 2010 a dressé la liste des transactions de surfaces agricoles pour au moins 45 millions d’hectares qui ont été conclues durant les seuls onze premiers mois de l’année 2009. Plus de 70% des affaires concernent des terres africaines dont l’Ethiopie, le Mozambique et le Soudan faisant partie des pays qui transmirent des millions d’hectares à des investisseurs.
Avant 2008, la moyenne mondiale de ces affaires se chiffrait à moins de 4 millions d’hectares par année, selon le rapport. Mais la crise alimentaire de ce printemps-là, qui déclencha des troubles dans au moins une douzaine de pays, provoqua cette ruée d’achats. La perspective de déficits alimentaires futurs attira autant des gouvernements riches qui n’avaient pas assez de surfaces agricoles exploitables pour nourrir leur population, que des hedge-fonds qui spéculent à la hausse sur des matières en raréfaction.
Nous observons que l’intérêt aux achats de terres continue à un niveau très élevé» dit Klaus Deininger, l’économiste de la Banque mondiale qui a rédigé le rapport. Comme des gouvernements ne voulaient pas révéler leurs contrats d’achat, il dut emprunter beaucoup de chiffres à un site web rédigé par Grain, une organisation de défense des paysans.» C’est manifestement loin d’être terminé».
Bien qu’il approuve en général les investissements, le rapport décrit en détail des résultats mitigés. L’aide au développement de l’agriculture diminua d’environ 20% de l’aide totale en 1980 à actuellement environ 5%, occasionnant un besoin d’autres investissements pour soutenir la production.
Mais selon le rapport bien des investissements semblent être de pures spéculations qui font mettre des terres en friche. Des paysans ont été chassés sans indemnisation, des terres furent affermées loin en dessous de leur valeur, les personnes expulsées em­piètent finalement de plus en plus sur des espaces verts et les nouvelles entreprises ont créé bien moins d’emplois que ceux promis.
L’étendue sidérante de certaines affaires galvanise les opposants. A Madagascar, une convention qui aurait transmis la moitié des terres arables du pays à un conglomérat sud-coréen cristallisa l’opposition contre un président d’emblée impopulaire et contribua à sa chute en 2009.
Dans des pays comme le Congo, l’Ethiopie, le Libéria, l’Uganda et la Zambie, des gens ont été chassés de leurs terres. Il arrive même parfois que des investisseurs prennent possession de terres qui étaient soi-disant inhabitées. Au Mozambique, une société d’investissement découvrit tout un village avec son propre bureau de poste sur des terres qui avaient été décrites comme inhabitées, raconta Olivier De Schutter, le rapporteur des Nations Unies pour les questions alimentaires.
Au Mali, l’Office du Niger, une société dirigée par l’Etat, contrôle environ 1,2 millions d’hectares de terres le long du fleuve Niger et de son delta. Durant presque 80 ans, seules 80 000 hectares de cette surface ont été irriguées, ce qui incite le gouvernement à considérer les investisseurs comme une bénédiction.
«Même si on donnait les terres à la population, elle n’aurait pas les moyens de les cultiver, ni même l’Etat» dit Abou Saw, le directeur de l’Office du Niger.
Il mentionna des pays dont les gouvernements ou l’économie privée ont déjà fait des investissements ou qui ont manifesté leur intérêt: la Chine et l’Afrique du Sud pour de la canne à sucre, la Libye et l’Arabie saoudite pour du riz; mais également la Belgique, le Canada, la France, l’Inde, les Pays-Bas, la Corée du Sud et des organisations multinationales telles que la Banque de développement de l’Afrique occidentale.
Au total, dit Sow, environ une soixantaine d’affaires conclues concernaient au moins 240 000 ha de terres au Mali, bien que certaines organisations aient déclaré que plus de 600 000 ha ont été attribués. Il prétendit que la plupart des investisseurs venaient du Mali et plantaient des aliments pour le marché indigène. Mais il avoua que des investisseurs étrangers tels que les Libyens qui affermaient 100 000 ha au Mali, réexportaient probablement leurs produits dans leur pays.
«Quels avantages retireraient-ils d’investir au Mali s’ils ne pouvaient même pas emporter leur propre récolte?» questionna Sow.
Comme pour beaucoup de ces affaires, on ne peut pas savoir clairement combien d’argent le Mali peut gagner dans ces affermages. Le contrat qui a été signé avec les Libyens leur attribue les terres pour au moins 50 ans avec la seule obligation pour eux de les mettre en valeur.
«Les Libyens veulent produire du riz pour des Libyens, par pour les Maliens» dit Mamadou Goïta, le directeur d’une ONG de recherches à but non lucratif au Mali. Lui et d’autre opposants soutiennent que le gouvernement privatise une ressource nationale minimale sans améliorer l’approvisionnement en nourriture indigène, et que ce sont des considérations politiques et non économiques qui dirigent tout, parce que le Mali veut améliorer ses relations avec la Libye et d’autres pays.
Les grandes surfaces attribuées à des investisseurs privés sont à bien des années de produire des rendements. Mais des instances officielles affirmèrent que la Libye avait déjà dépensé plus de 50 millions de dollars pour la construction d’un canal de 39 km et pour une route qui ont été construits par une firme chinoise pour le bien de la population locale.
Chaque paysan concerné, ajouta Sow, y compris plus de 20 000 personnes qui sont concernés par le projet libyen, sera indemnisé. «S’ils perdent un seul arbre, nous leur rembourserons la valeur de cet arbre», dit-il.
Mais la colère et la méfiance sont grands. Le mois passé, lors d’une manifestation, des centaines de paysans exigèrent que le gouvernement arrête ce genre de transactions jusqu’à ce qu’ils aient voix au chapitre. Plusieurs racontèrent qu’ils avaient été frappés par les soldats et incarcérés, mais qu’ils étaient prêts à mourir pour garder leurs terres.
«Nous aurons bientôt une famine» s’écria Ibrahima Coulibaly, le chef du Comité de coordination des organisations agricoles du Mali. «Si les gens ne s’engagent pas pour défendre leurs droits, ils perdront tout!»
«Ante!» crièrent les gens dans la foule en Bambara, leur langue locale. «Nous refusons!»
Selon des experts, le problème qui menace, c’est que le Mali demeure une société agraire. Si on chasse des paysans de leur terre sans leur offrir une base vitale alternative, on risque d’inonder la capitale Bamako de gens déracinés et sans emploi qui pourraient devenir un problème politique.
«Notre pays constitue une ressource naturelle que 70% de la population exploitent pour survivre» dit Kalfa Sanogo, un économiste du programme d’aide au développement des Nations Unies au Mali. «On ne peut pas simplement chasser 70% de la population de leurs terres et on ne peut pas non plus dire qu’ils n’ont qu’à se faire ouvriers agricoles». Dans une approche différente, un projet des USA de 224 millions de dollars aidera environ 800 paysans maliens à acquérir chacun cinq hectares de terres récemment défrichées. Cela devrait les protéger de l’expulsion.
Soumoni se situe à environ 30 km de la route la plus proche. Des pâtres nomadisants, avec leurs caractéristiques chapeaux de paille pointus, indiquent des directions à prendre dans le genre: «Prends à droite à la termitière trouée.»
Sekou Traoré, 69 ans, un ancien du village, demeura sans voix lorsque des représentants du gouvernement lui apprirent l’année passée que la Libye contrôlait désormais ses terres. Il les avait toujours considérées comme sa propriété, transmises de génération en génération, du grand-père au père, puis au fils.
«Tout ce que nous voulons c’est qu’ils nous montrent les nouvelles maisons, dans lesquelles nous devrons habiter, et les nouveaux champs que nous cultiverons, avant de détruire nos maisons et de prendre nos champs» déclara-t-il lors de la manifestation du mois passé.
«Nous avons tous tellement peur» dit-il des 2229 habitants de son village. «Nous serons les victimes, ça nous en sommes sûrs».     •

Source: International Herald Tribune du 23/12/10
© International Herald Tribune
(Traduction Horizons et débats)

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Agrocarburants au lieu de produits alimentaires: la spéculation avec les terres arables sévit aussi en Europe

Wolfgang Beer, ingénieur diplomé, gère à Gerbstedt dans le Land de Saxe-Anhalt la société Gerbstedter Agrar GmbH, qui a fêté son 20e anniversaire en 2010. Elle exploite 1772 hectares de surface arable, 23 hectares de forêts et 5 hectares d’espaces verts. En 2010, elle employait 46 personnes, dont quatre apprentis agriculteurs, un apprenti mécanicien sur machines agricoles et une apprentie de commerce.
La terre est bonne – du loess argileux sablonneux, une valeur du sol de 85 à 88, «afin que chaque agriculteur sache que c’est en fait une excellente terre agricole», selon Wolfgang Beer face à un journaliste de la Radio suisse alémanique DRS. Ce qui le préoccupe avant tout, c’est le prix des terres. Déjà à l’époque de la RDA, Wolf­gang Beer avait été président de la coopérative de production agricole locale. Après la réunification, il a affermé les terres de la Treuhand [organisme chargé de privatiser l’économie de l’ex-RDA, ndt.], dont les contrats expirent maintenant. Cela signifie que de vastes terres agricoles vont apparaître sur le marché – et déjà, les spéculateurs et les investisseurs se pointent et font monter massivement les prix des terres dans la région. Face à Franco Battel de la Radio suisse DRS, Beer déclare: «Jusqu’au milieu de l’année 2010, les prix dans notre région variaient entre 9000 et 10 000 euros par hectare. De tels prix étaient économiquement assez raisonnables du point de vue de la production agricole. Mais il y a une évolution massive des prix. Dans notre région, ils atteignent actuellement 17 500 euros. Du point de vue purement agricole, ce n’est financièrement plus réalisable et donc une menace pour l’ensemble du développement agricole de la région. Chacun doit décider lui-même dans quelle mesure il peut financer cela, dans quelle mesure il peut concourir à ces prix, quel risque il veut prendre et à quel point il veut mettre en danger son exploitation.
Des investisseurs se sont également adressés à la Gerbstedter Agrar GmbH et ont offert à Beer et ses collègues des prix mirobolants. Beer les a renvoyés – en tant que citoyen, la responsabilité envers ses employés lui est plus importante qu’un profit rapide: «La plupart des investisseurs pensent aujourd’hui à la production de bioénergies, cela veut dire que probablement, on cultivera sur ces terres du maïs ou une autre plante énergétique en culture permanente. Dans certains endroits, c’est déjà un événement politique: Si je cultive une plante vivrière à plusieurs reprises au même endroit sans me conformer à une culture professionnelle, les problèmes seront évidemment inévitables. Moi, je veux cultiver des produits alimentaires. Nous ne pouvons pas tout importer. Je peux m’imaginer ce que cela pourrait signifier pour la sécurité alimentaire dans les pays européens: une instabilité sans fin. En tant que citoyens, cela nous cause bien des soucis.»

Source: Schweizer Radio DRS International du 7/11/10. www.agrar-gerbstedt.de/index.html

vendredi, 21 janvier 2011

Bernard Lugan: les crises africaines

Bernard Lugan:

les crises africaines